Premetto che, nel giudizio che ci facciamo su qualcosa, il parere degli altri dovrebbe essere solo un consiglio e non un'influenza che ci cade addosso come qualcosa di inconfutabile. Nonostante ciò, a volte le opinioni sono così unanimi in positivo o in negativo che ti fanno vacillare, ti standardizzano il gusto e ti arrendi. Cioè rischi di essere convinto che per esempio Dark Side Of The Moon è un capolavoro ancora prima di averlo ascoltato, o che Apocalypse Now è insuperabile anche se non ne hai ancora visto un fotogramma. Ma tutti lo dicono…

A me in scala minore è successo coi primi due album dei Big Star, leggendario gruppo di Memphis capitanato dai due chitarristi Alex Chilton (anche vocalist) e Chris Bell. Dopo un primo album, appunto #1 Record (1972), i due vengono lodati per una simbosi compositiva degna di Lennon/McCartney ma Bell decide dopo incomprensioni con il partner di lasciare il quartetto che diverrà un trio, con Chilton unico leader incontrastato.
Questa formazione sfornerà il seguito di #1 Record, Radio City (1973) e si scioglierà prima di pubblicare il terzo album, che uscirà postumo nel 1978 (Third/Sister Lovers, che purtroppo non ho sentito ma di cui tanto avete già una recensione).

I Big Star e questo dittico di album sono diventati quasi subito un cult, dopo che erano stati molto poco considerati commercialmente, una specie di Velvet Underground degli anni’70. Ma a me non riesce vederla così. Tutta l’innovazione, freschezza, originalità e gusto che sono stati attribuiti a 'sti 4 giovanotti io l’ho trovata pochissimo, e molto diluita.

Cominciamo col dire che l’album della coppia Bell–Chilton mi sembra molto più valido, per il semplice fatto che Bell ha un’ottima vena melodica memore dei mostri del rock post Beatles/Stones, e che sa ammorbidire e filtrare gli eccessi di Chilton; l’altro invece tende(rebbe) a usare una voce squillante potente ed espressiva in modo molto scontato e anonimo, come se da canzone a canzone stesse parlando sempre dello stesso argomento.
Il marchio di fabbrica del loro suono è l’alternanza tra parti acustiche folk e parti hard-rock blues; e questo è qualcosa di molto saggio, rende tutto più vario e più digeribile. Peccato che la qualità media delle canzoni renda lo stratagemma sprecato.
Ci sono alcune grandi ballate, come la semplice ma genuina “Thirteen”, coverizzata in lungo e in largo, “The Ballad Of El Goodo” (che dedicai a 16anni a una ragazzina e quella mi fece chiamare dai genitori), e la mielosa ma adorabile “Give Me Another Chance” (e questa l’ho coverizzata io alla morte!!).
Ma poi? Mille corettini, mille schitarrate sui soliti accordi già provati da tutti i migliori artisti (dai Led Zeppelin a Rod Stewart) dei 5 anni precedenti. Canzoni sull’India che sembrano un misto tra un jingle natalizio e “Sloop John B” dei Beach Boys (“The India Song”) e un senso continuo di inconsistenza che ogni poco si rifà vivo.

Ma se il problema del primo album è che forse è troppo superficiale, ti entra da un orecchio e spesso esce subito dall’altro, il problema del secondo è che tutto è appesantito dall’indulgenza del leader, che deve e/o vuole fare tutto da solo. Un po’ la sindrome di cui ha sofferto Damon Albarn per Think Tank. E quindi rende tutto quasi indigesto, o almeno confuso. La precisione di un tempo si è tramutata in schizofrenia pop, con canzoni da tre minuti che non sanno dove andare, non riescono a rimanere salde su un ritornello, cambiando continuamente accordi, non per sperimentalismo ma per sospetta incapacità di dare una forma, un corpo ben preciso ad alcune ottime intuizioni (anche se ci sono magnifiche eccezioni tra cui l‘evergeen “September Gurls“o la riuscita“You Get What You Deserve“).

Per questo mi resta l’amaro in bocca, ho comprato questo cd e l’ho tenuto per le mani come se fosse un tesoro inestimabile. Ma lo è???

Carico i commenti...  con calma