Tempi di crisi, i Big Troubles l’hanno estesa alla musica, li ascolto e vacillo. C’è qualcosa di appiccicoso che ottenebra la capa mentre li ascolto, e non è dato dal mutare del sangue in insulina a fronte di torroni, panettoni, datteri, panforte, mostaccioli, e l’asinello ed il bue sanno cos’altro. E’ l’uomo ad essere in crisi, i Big Troubles lo sanno e fanno quello che fanno tutti i giovani su cui si sputa, dopo essersi nascosti dietro al dolce manto fittizio della disillusione sono tornati bambini tenendosi stretti gli impulsi che li hanno accompagnati da adolescenti.

Visto che il sottoscritto vorrebbe costantemente degradarsi a spermatozoo in sede uterina capirete che mi trovo a mio agio in questo debutto. Anni 90? Si, che vuol dire? Bo. Barcollo, i grandi problemi hanno un’identità solida, si sente. Sul sito della loro etichetta c’è scritto che sono dei ragazzi cresciuti assieme sin dalle scuole d’infanzia, si sente. Però i problemi affiorano realmente, come fa musica così leggera ad impattare così furbescamente nel mio inconscio? Convinto sia il glucosio della prim’ora aspetto un po’, passa il tempo, li riascolto, no non ci siamo, di nuovo il mal di montagna. Si appiccica alla testa poco da fare. 

Ascoltare quest’album è riascoltare pezzetti di tormenti giovanili di più o meno tutti coloro nati negli anni 80. La vera ricchezza della loro musica è il (volontario?) velo mistificatorio dato dagli arpeggi edulcorati, le voci sussurrate, il lo-fi, un patrimonio in via d’estinzione, accompagnato da una perspicacia compositiva coi controcazzi. La chiave di volta sta nel sound, pieno zeppo di riferimenti ma allo stesso tempo autoreferenziale, paradossale. Allora se vi abbandonerete a quest’album saprà regalarvi momenti dimenticati, ognuno dei quali diverso, nitidamente riemerso dalle vostre persone.

Io c’ho trovato l’essenza del pop britannico post-tatcheriano, dai South ai Cure, Doves, gli I Am Kloot, Camera Obscura, i Lodger, poi lo zampino degli Smashing Pumpkins e quello degli Yo La Tengo, qualcosa dei Grandaddy. Un meltin pot nostalgico, spintosi più in là degli Yuck, suonato dal gruppo americano più british sulla piazza. Eppure uno degli album più autentici che abbia ascoltato ultimamente, imprescindibile per gli sfigati amanti del pop trasognato, che sa ricordarsi come ci si diverte e come ci si emoziona. Un album leggero e distante dal ritmo del ventunesimo millennio.

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