Nel 1978 esplodevano i Van Halen e i Police, gli AC/DC erano più in forma che mai, i Black Sabbath ormai avevano perso Ozzy, i Led Zeppellin avevano avuto e fatto tutto quello che era possibile avere e fare (e forse essere) per una rock band, il punk era in piena fase di distruzione e di lì ad un anno già comincerà a sterzare verso il dark con i Joy Division, l’Italia soffriva del suo marciume con il caso Moro, cominciava il lungo pontificato di papa Wojtyla, e accanto a Rino Gaetano i juke-box mandavano a ciclo continuo “Una donna per amico” e “Figli delle stelle”; poi le illusioni di pace in Medio oriente, ma l’odio rende banali, e ahimé il male è banale come notò Hannah Arendt. In mezzo a tutto questo, ecco l’antidoto: Bill Evans era ancora vivo.

Keith Moon no, Lennie Tristano neppure. Bill Evans però sì. Grazie al cielo. E aveva trovato l’ennesima “affinità” elettiva con nientemeno che Toots Thielemans. Col senno di poi sembra evidente, e stupisce che abbiano inciso solo un disco. Soprattutto dispiace, ecco. Questo è un disco particolare, a partire dalla copertina, nel peggior stile “bomboniera-d’argento-che-vedevi-da-bambino-nella-vetrinetta-dei-nonni”. Bill Evans, Toots Thielemans, Marc Johnson, Eliot Zigmund, più ogni tanto Larry Schneider al sax. Certuni lo ritengono deludente, altri noioso, altri ancora – la maggior parte, sembrerebbe - uno dei migliori lavori del pianista. Io, naturalmente, faccio parte di questi ultimi.

Prende forma l’ultimo trio di Bill, un giovane Marc Johnson fa la sua prima apparizione, e la fa alla grande. Un suono rotondo, swing di prima classe, fantasia e solidità. Dopo oltre dieci anni di Eddie Gomez, diciamocelo, mica era facile… Zigmund alla batteria è elegante, discreto e aggraziato come sempre, batterista sottovalutato, ma secondo me uno dei migliori che abbiano lavorato con il grande pianista. Eppure dopo questo disco, la terza volta con Bill, verrà rimpiazzato da John LaBarbera. Schneider fa il suo lavoro onestamente, a volte con qualche guizzo in più, ma ad un ascolto prolungato sembra quasi essere di troppo in un disco che offre momenti di pienezza che lasciano un senso di sazietà che stordisce.
Toots Thielemans è semplicemente l’equivalente di Bill Evans all’armonica. Intensità stupefacente, suadente morbidezza e suono pieno e commosso. Ci sono lancinanti e tristi ballad a volte con il piano acustico (“I do it for your love”, cover di un brano di Paul Simon!, “The days of wine and roses”), altre con il Fender Rhodes e il suo canto vibrante (“Jesus last ballad”, un attacco da togliere il fiato, “The other side of midnight”), di tenue luminosità. Note per acuire il dolore della solitudine, e uscirne prima, tenuti per mano dalla Bellezza in persona.

Ci sono sorprendenti ritmi latin, con temi scherzosi (“Tomato Kiss”), e c’è l’immortale jazz waltz (“Sno peas”, vorrei dire magnifica ma mi sento così monotono…), quasi il marchio di fabbrica dei lavori di Evans (mi pare che non ci sia neppure un suo album senza almeno un brano in ¾ ). Due brani rimangono un po’ anonimi, ottimamente suonati, ma quasi anonimi in questa ingombrante compagnia, “This is all I ask” e “Body and soul”. Ma si capisce, oltretutto ad un certo punto veniamo fulminati… : avete presente il magico tema di “Blue in green” in “Kind of Blue” ? Bene, aggiungete dei chorus in ¾ (eh, un solo brano non bastava), l’armonica straziata di Thielemans, il groove di Johnson e Zigmund ed avrete “Blue and Green”, la dolceamara “vendetta” di Bill su Miles Davis che si racconta gli avesse rubato la paternità del brano originale, e che all'originale è addirittura superiore nello svolgersi quasi mistico del tema.

Cinque stelle per volare alto, tra accostamenti inconsueti, e la consueta, enorme classe di questo pianista, pietra filosofale del jazz che trasformava in oro ogni nota che usciva dal suo spirito.

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