Bill Evans era un uomo colto.
Bill Evans sapeva.
Recensire un opera di Evans, qualunque essa sia, non è mai un compito semplice; per farlo, infatti, bisogna essere in grado di spiegare una sensazione molto particolare: quella di un calore che pervade il nostro cervello, aiutandolo a liberarsi di ogni pensiero superfluo; calore che arriva poi dritto al cuore, avvolgendolo e facendolo suo.
Bill Evans aveva la straordinaria capacità di lasciarsi andare ma, allo stesso tempo, di scegliere sempre le note giuste; quelle stesse note che, ascoltandole a distanza di mezzo secolo, continuano imperterrite a toccare corde dell'anima che forse nemmeno noi stessi pensavamo di avere.
"Explorations", registrato nel 1961 in compagnia di Scott LaFaro e Paul Motian, non fa eccezione, ed è uno dei capisaldi dell'opera Evansiana. Dal punto di vista musicale, l'abilità melodica e stilistica di questo Trio, è quanto di più sopraffino si possa ascoltare. Tre musicisti uno al servizio dell'altro, a costituire un entità strumentale unica, che spazia tra delicate e fragilissime ballate fino a frizzanti composizioni pianistiche, tutte giocate sul fascinoso contrasto tra il pianoforte pacato e drammatico di Evans e l'esuberanza, la profondità del contrabbasso di LaFaro.
Per dischi come questo è quasi inutile menzionare titoli, anche se sarebbe interessante poter parlare della perfezione stilistica di una piccola gemma come l'iniziale "Israel", intreccio di robusto swing e di altrettanto robuste pennellate di contrabbasso; si potrebbe parlare della raffinatezza e della drammaticità sonora di "Haunted Heart", composizione in cui Evans dà fondo a tutto il suo lirismo e in cui Motian dimostra di essere non solo un semplice accompagnatore, ma un prezioso creatore di intelaiature ritmiche di prim'ordine; si potrebbe parlare della grazia che pervade gioielli come "I Wish I Knew" e la conclusiva "The Boy Next Door", ma non è questo il punto.
La chiave per capire il lascito musicale di Evans è nascosta ben oltre le singole note suonate: tutto sta nel riconoscere dentro di sé quell'imponente flusso nato dai suoni puri e cristallini che, pian piano, entrano in noi.
E li restano.
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