Ed ecco tra le annunciate stelle di Noel, quelle ghirlande di argento stese sul manto di neve soffice, tra quei batuffoli sognanti l’affondo lieve di quei passi, quel ritorno al calore di una musica abbandonata in quel vecchio cassettone in noce.
Mentre le luci notturne avvolgevano la città in quel grembo fecondo, in quell’odissea lunga come un battito di due cuori. Charlotte’s Town.
Ci sono album che subito dalle prime battute rivelano la loro natura viandante.
Quel pagano cadeau che nulla ti chiede in cambio.
Lasciare alle spalle quegli umori consumati di festa, lasciandosi avvolgere dall’ora silente della notte, dalla trapunta sfocata delle ombre.
Passeggiare sul ciglio della strada e farsi rapire la vista dai quei due innamorati sulla panchina nel parco,
una guancia sfiorare un’altra guancia,
fra il canto basso del fogliame.
Quelle dolci labbra pizzicare quel miele, era forse appena scoccata la mezzanotte, attendendo quel taxi che tardava ad arrivare.
Intanto mentre la nebbia ricamava antiche sagome, si insinuavano in testa come carillon malati, ballate stropicciate come una fune innevata,
tirata da quelle cime da due infreddoliti Lou Reed e John Cale.
Vinco io o vinci tu ? Anzi sai cosa ti dico, io me ne vado, disse quel cocciuto di un gallese.
Semi assiderati, eccolo arrivare dal cuore della notte buia, quel taxi atteso, alla guida un conducente con i baffi, un viso scolpito dai neon ed una loquace parlantina considerando l’orario.
Il taxi è una surreale Ford Mustang, l’abitacolo è a 19 gradi e a norma, il conducente si chiama Bill Stone, ha le stimmate dell’artista ed un tassametro giocattolo, parrebbe un principe in esilio od un artista che cerca di sbarcare il lunario.
Ad un certo punto Bill si fa serio e si mette a parlare di Angeli che cadono in fiamme dal Cielo e dei Boston Celtics che non li ammazza più nessuno, tramando sotto i baffi tremanti, portando in dono con sé quel suo unico album, Stone, una manciata di gemme folk prodotte in 500, o forse 1000 copie, tante influenze nobilissime tra Velvet Underground, Cohen, Pearls Before Swine, una canzone Crystal Lover di una frastagliata dolcezza che non teme di nascondere un’anima grandissima.
Anche degna di portare il moccolo in quel gioiello del terzo album dei Velvet, tra quelle filastrocche così agrodolci, così malsane.
Singhiozzi di profondità ultraterrena e lisergica, sullo sfondo soffici vibrazioni lunatiche a tarda notte, avvistamenti Ufo e bicchieri di scotch , cigarettes cigarettes & cigarettes, interstizi di fasi rem e lunari, droni e feedback di chitarra, cori di ninfe in attesa dell’alba in un teatro greco, Santa Claus e Leonard Cohen.
E dopo esserci fatti riscaldare il cuore da Bill, con Charlotte’s Town si è al culmine di quella corsa, di quell’odissea tascabile, quel battito del cuore costante in simbiosi con quel folk barocco e perduto, quel cassettone in noce che si apre e la voce di Bill e Beth Warehouse che aggiunge ossessione a quel desiderio, un feedback di chitarra sottile quasi ad offrire un chiarore spento a quelle prime luci del mattino.
11 canzoni per affrontare un’altra notte, un soffice fingerpicking per rendere fluida quella tensione superficiale, una costante malinconia per quei desideri che si possono sognare ma non toccare, un altro oscuro sfidante del Tempo al servizio della nostra sgangherata Corte dei Miracoli.
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