Uscito da circa tre d'anni per i tipi della Karaoke Kalk con il titolo di "Osaka Bridge", questo prezioso lavoro viene ora riproposto dalla Geographic per il mercato inglese con l'alias enigmatico di "GOK", una copertina eloquente ed una prescindibile variazione nella scaletta dei brani.
Bill Wells è un musicista scozzese sulla cinquantina, jazzista autodidatta e pianista per vocazione, un outsider che non disdegna, anzi ama, contaminarsi con la musica giovane per eccellenza, l'indie-pop. Nel tempo le ribalte l'hanno visto capitanare trii ed ottetti, ottenendo risultati meravigliosi in "Incorrect practice" "Also in White", album che invito caldamente a recuperare; una maggiore visibilità l'ha acquisita allorché s'è inventato fiancheggiatore di artisti quali Pastels, Jad Fair, Future Pilot Aka (ex Soup Dragons), Isobel Campbell (ex Belle & Sebastian) e Barbara Morgenstern, all'insegna di proposte prevalentemente strumentali, sobrie, austere e sempre eccentriche e palesemente ironiche, ovviamente cangianti in ragione della mutualità d'intenti a base dei progetti. Domare spiriti liberi come J. Fair mica deve essere stato compito semplice, come pure guidare I. Campbell nell'impresa di reinterpretare B. Holiday in "Ghost of yesterday" senza cadere nello scontato, misurarsi con una sperimentatrice del calibro della B. Morgenstern e partorire un gioiellino come "Pick up sticks" fu poi operazione da applausi.
Bill Wells è soprattutto uno di quegli artisti che impiegano una vista per imparare ad esprimersi come bambini: la collaborazione in esame lo vede dirigere una band giapponese convertita agli ottoni, la Maher Shalal Hash Baz, in una serie di brevi strumentali (tredici, oltre "Cowfail calypso" e "Times take me so back", struggente nenia degna di trionfo allo Zecchino d'Oro dei nostri sogni) ed ottenere quella che s'è rivelata la perfetta colonna sonora per la mia accidiosa estate.
L'incedere dei brani è un inno all'indolenza; una giostra stonata dove il suono greve e spompato dei fiati è stemperato dalla solarità delle melodie ("On the Beach Boys bus") e la solennità di alcuni temi è talmente esasperata da rasentare la parodia di musiche sacre ("Rye and guy"). Il resto è pura magia, un carillon del colore, una sorta di compendio Bacharachiano immolato all'insegnamento del solfeggio in classi differenziate, contrappuntato da stecche impagabili come i baffi impressi alla Gioconda di dadaistica memoria ("Liquorice tips", "Banned annoucement").
Inutile dilungarsi oltre, spero d'aver solleticato la curiosità del fanciullino che alberga in voi: il jazz qui c'azzecca poco (affiora chiaro solo in "Poxy"), confinato ad una ipotesi di lettura; definirei piuttosto "GOK" un manifesto di lounge (art brut) music o, se volete, punk music nella sua espressione più invereconda e meno omologata; per apprezzarlo e condividerne lo spirito basta essere disposti al divertimento (nell'accezione primitiva del termine, quella che condivide la radice con l'espressione "diverso") e saper tornare sui luoghi della propria infanzia, senza nostalgia, col sorriso al cielo ed una lingua di Menelicche tra i denti, consapevoli che nulla è più sacro dell'innocenza e ringraziando gli impuniti che ancora la sanno mantecare alla musica.
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