Avevo paura. Paura che il successo del primo disco potesse dare alla testa a questa ragazzina e farle compiere un tonfo verso l’omologazione alle colleghe più scrause. Non è successo, almeno per ora, il secondo album di Billie Eilish è coerente con le aspettative, anzi, raffina ancora di più il sound, lo rende addirittura meno pop, più soffice e più sussurrato, con sempre meno spazi al groove da classifica. Seriamente parlando, a volte viene da chiedersi se davvero Billie sia un’artista pop, perché ha davvero ben poco di ciò che serve per avere un largo successo. A pensarci bene la proposta è persino di difficile classificazione, è sospesa fra l’elettronica minimalista, l’indie pop e una specie di jazz intimista ridotto all’osso. Il suo successo è anche in un certo senso una sorpresa in un calderone dove dominano melodie piatte e beat ossessivi.
I brani di “Happier Than Ever” sembrano delle vere e proprie ninnananne ipnotiche, dove la strumentazione viene sollecitata delicatamente e Billie sussurra alla sua maniera confermando di aver praticamente creato un nuovo stile vocale, o perlomeno uno stile personale ed inimitabile che probabilmente nessun’altra si sentirà di voler tentare di emulare.
Alcune di queste nenie hanno un’impostazione sostanzialmente elettronica, si pensi ai regolari “saltelli” di “Getting Older”, agli spifferi in stile Radiohead di “Everybody Dies”, al soft-soul cantato con voce cullante di “My Future”, per non parlare di “Not My Responsibility”, dove Billie parla delicatamente sopra un tappeto ipnotico fatto da accordi lunghi e sofferti e da ticchettii regolari ed inquietanti quanto quelli di un orologio da tavolo nel silenzio. Altri brani invece sono carezze acustiche, come ad esempio “Your Power” o “Male Fantasy” ma anche il malinconico pianoforte di “Halley’s Comet”. La title-track è invece un caso a parte, un caso spiazzante, un brano dai due volti piuttosto inusuale, acustica e con un mood vagamente anni ’50 la prima parte, rock lievemente rumoroso nella seconda… e chissà se in futuro avremo davvero una Billie più rock…
Gli episodi più ritmati e “alla moda” non mancano ma mantengono comunque una certa cura per i suoni e gli arrangiamenti, che sono sempre limpidi e ben udibili, a differenza di molte produzioni delle sue colleghe. Nemmeno i beat più clamorosamente pop quali “I Didn’t Change My Number” e “Oxytocin” riescono nell’impresa di suonare in maniera indegna, di compromettere l’integrità artistica di questa ragazzina prodigio. Il passo falso però c’è, “Therefore I Am” è poca roba a livello di suoni, il livello lì si abbassa davvero, non siamo molto lontani dal pop piatto e risicato d’alta classifica, anche se rimaniamo sempre un pelo sopra.
Ebbene sì, Billie Eilish si è superata regalando un disco persino migliore del suo debutto. Paura passata? Presto per dirlo, gli attributi si vedono alla lunga distanza e innumerevoli band o artisti hanno impiegato diversi anni e album prima di passare a cose più facili; e lei naviga comunque in acque pericolose, essendo in ogni caso un’artista mainstream, acque vorticose che possono risucchiarti in qualsiasi momento se non ti tieni ben aggrappato ai sostegni e se non stai attento. Già l’immagine della ragazza è cambiata in qualcosa di più appetibile alle riviste di moda, sostituendo le tinte colorate punk in favore di un biondo platino molto Marilyn, e mettendo un po’ da parte i fantasiosi vestiti larghi e tappezzati di svariati colori e motivi, a volte scoprendo qualche parte del corpo in più. Ma non è tempo di pensare a cosa sarà Billie Eilish domani, godiamocela per quel che è adesso.
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