Nel 2018 e nel 2019 il critico musicale Pop Topoi inserì due canzoni di Billie Eilish nelle sue stimate classifiche di fine anno, rispettivamente You Should See Me in a Crown e Bury a Friend. Pur con la mia stima per il suo gusto e le sue competenze, ai tempi ritenni quelle sue scelte incomprensibili poiché ritenevo le canzoni stesse incomprensbili, più simili a esperimenti di una bambina post-emo che gioca con gli effetti sonori che a vere canzoni (sempre se mai esiste una definizione di “vera canzone”, poi). Il 13 febbraio 2020, però, venne pubblicata No Time to Die, che Pop Topoi commentò su Twitter con una singola parola: «perfetta». E stavolta ero d’accordo con lui: da fan di 007 e delle theme song di 007, la canzone fu per me immediatamente comprensibile, immediatamente amata e, dunque, immediatamente riconosciuta come la chiave per finalmente capire e apprezzare la poetica letteraria e il linguaggio musicale della cantautrice (o meglio dei cantautori, essendo "Billie Eilish" il nome collettivo con cui si firmano i fratelli Billie e Finneas O'Connell, rappresentanti della tipica formazione musicale in coppia donna & uomo in cui generalmente lei scrive e canta e lui compone e arrangia, come per Capsule, Carpenters, Coma_Cose, Goldfrapp, Pizzicato Five, eccetera). Billie Eilish e io ci siamo incontrati su un terreno comune e ci siamo capiti. Quando poi pochi mesi dopo uscì My Future, e per di più con un videoclip animato à la Studio Ghibli, la comprensione divenne totale e la devozione anche: il messaggio comunicato è meraviglioso, il verso «I know supposedly I'm lonely now, / know I'm supposed to be unhappy without someone / but aren't I someone?» è geniale, la musica è deliziosa, sia il contenuto sia la forma sono adorabili. L'album Happier than Ever del 2021 confermò tutto, l'EP Guitar Songs del 2022 è una perla: ok, questo è amore.
In quest'anno 2023 Billie Eilish ha prodotto una sola canzone: What Was I Made For?, tema del film Barbie diretto da Greta Gerwig. Per quel che mi riguarda, è un capolavoro.
Stando alle dichiarazioni di Billie, la canzone fa parte di due ristrette cerchie, quella dei brani scritti in pochi minuti e quella, ancora più ristretta, delle melodie trovate al primo colpo semplicemente provando uno stumento, come Caruso di Dalla o Seven Nation Army dei White Stripes. Stando alle dichiarazioni di Finneas, la semplicità di quel primo gesto pianistico istintuale è stata mantenuta ed esaltata attraverso un tappeto sonoro tanto complesso e raffinato quanto sotterraneo e discreto: nelle parole del musicista, What Was I Made For? è come un quadro dipinto con 190 sfumature, ma in cui lo spettatore vede solo un tramonto senza accorgersi delle minuzie tecniche; si tratta di una pratica comune dei fratelli O'Connell, che solitamente scrivono e arrangiano di getto e riservano alla post-produzione un ruolo di solo perfezionamento dei dettagli, mantenendo la freschezza iniziale nel prodotto finito.
E il prodotto finito, in questo caso, è straordinario. In meno di quattro minuti Billie e Finneas mettono insieme una tale quantità di idee, di suggestioni, di memorie sopite, di sensazioni cromatiche, di domande esistenziali da far tremare i polsi e sussultare il cuore a ogni ascolto, a ogni nuova scoperta di un sussurro o suono non sentito negli ascolti precedenti.
Nella pratica il brano è estremamente sobrio, quasi spoglio, poco più di un duetto per pianoforte e voce, ma composto in maniera brillante e apparentemente contraddittoria così da ottenere ancor maggiore tensione emotiva. Mentre il pianoforte suona in 4/4 in tempo adagio e in tonalità di do maggiore, con la semplicità di una canzoncina per bambini, la voce pronuncia parole che suonano come la più intima e dolorosa delle confessioni di un'adulta:
Prima galleggiavo, adesso vado a fondo; prima lo sapevo, adesso non sono sicura di sapere a cosa servo. A cosa servo io?
Vado a fare un giro. Ero un mito, mi sentivo così viva, e invece non sono vera, ma solo qualcosa in vendita. A cosa servo io?
…perché non so come sentirmi, ma voglio provarci. Non so come sentirmi, ma un giorno potrei.
Quand'ho smesso di divertirmi? Sono di nuovo triste, ma non dirlo al mio fidanzato, non è a questo che serve. A cosa servo io?
…perché non so come sentirmi, ma voglio provarci. Non so come sentirmi, ma un giorno potrei.
Sembra che abbia dimenticato come essere felice, una cosa che non sono, ma che potrei essere. Qualcosa che aspetto… qualcosa a cui servo… qualcosa a cui servo…
Benché queste parole siano state scritte sulla richiesta di Gerwig di descrivere le sensazioni e il punto di vista della bambola protagonista del film, non serve nessuno sforzo di immaginazione per applicarle anche agli esseri umani. E non è servito nessuno sforzo di immaginazione ai fan di Billie Eilish, che hanno immeditamente riconosciuto What Was I Made For? come un inno generazionale: già nei primi concerti subito dopo la pubblicazione del brano, tutto il pubblico lo cantava a memoria in lacrime. La domanda retorica «a cosa servo io?» (più precisamente «per cosa sono stata fatta?») risuonava già nel cuore di tante persona senza che queste lo sapessero, liquida e fluida e informe e quindi incomunicabile, ma nel momento io cui l'hanno sentita espressa in maniera sintetica e comprensibile, solidificatasi in cinque parole scrivibili e pronunciabili, si sono accorte che era esattamente quello che sentivano e che volevano comunicare da tanto tempo. Non è "sono triste", non è "mi manca qualcosa", non è "voglio morire": è esattamente, precisamente "a cosa servo io?". Definita la domanda, è possibile cercare una risposta.
La musica accompagna questo movimento acquatico concretizzandolo in un andamento a barcarola, che accoglie su un accordo di fa ostinato la meravigliosa frase si-do-mi-sol su cui si cantano le prime parole di ogni verso, a partire da quell'iniziale «I used to float» (float come Barbie giù dalla Dreamhouse, float come un pezzo di plastica sull'acqua, float come una persona spensierata sui problemi) che, coniugando il verbo al passato, acquisisce un valore fortemente drammatico, come di un qualcosa ormai andato perduto (l'amore, la salute, la felicità…), che ha davvero un valore di manifesto: abbastanza definito da essere compresibile, abbastanza vago da essere applicabile a molte situazioni. Infiniti piccoli suoni di percussioni, distorsioni, oggetti, cori, archi e molto altro sorreggono pianoforte e voce, componendo un arrangiamento vagamente nostalgico, vagamente ambientale, vagamente orchestrale, chiaramente emotivo. Il rapporto madrigalistico fra musica e testo, il cui la melodia acuta crolla nel registro grave come l'umore dell'io cantante, rende totalmente coerente la forma con il contenuto.
Due parole anche sul videoclip, diretto da Billie Eilish e anch'esso – come la canzone – solo apparentemente semplicissimo. Su un banchetto su campo neutro, Billie arriva con la sua valigetta delle bambole allestendone i vestitini, ma vento e pioggia le impediscono di giocare. Ma ecco che Billie è vestita da Barbie e i vestitini sono le versioni mignon di quelli reali indossati da Billie negli scorsi anni, dunque non è la persona a giocare con la bambola, ma il contrario, ovvero: siamo noi stessi gli artefici della nostra vita, il nostro corpo è la bambola che noi muoviamo e a cui facciamo vivere mille avventure scegliendo noi per lei; purtroppo c'è differenza fra quello che vorremmo farle fare e quello che davvero possiamo farle fare per via dei tanti eventi avversi che ci vengono addosso e che innegabilmente esistono e ci fanno perdere la speranza. Sta a noi impegnarci per superarli o anche solo per resistergli e aspettare di (ri)trovare prima o poi la felicità.
Non è detto che What Was I Made For? funzioni su ogni ascoltatore con la stessa forza comunicativa, ma chi riesce a riconoscersi almeno in parte nelle parole del testo di Billie o nell'umore della musica di Finneas, faticherà a uscire da quel suo stato di malinconia al contempo disperante e dolciastra, e d'altronde il testo finisce con un barlume di speranza e la musica con una salita di tono: c'è ancora e sempre una possibilità di felicità, ma bisogna volerla, ed è questa la parte difficile.
Una canzone certamente pop, ma non una canzone facile, non una canzone per TikTok, non una canzone per gli algoritmi: una canzone che parla di cuore, parla dal cuore, parla al cuore.
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