Da amante della musica vera e non di quella finta mi tengo sempre piuttosto lontano dal circuito mainstream, tanto da non sapere nemmeno chi sono le personalità del momento e da non essere in grado di riconoscere le canzoncine in voga, al massimo imparo i loro nomi a furia di sentirli nominare sui social, tant’è che sono venuto a conoscenza di Billie Eilish quando per puro caso spuntò fuori la dichiarazione di Thom Yorke in cui lodava il talento di questa ragazzina allora non ancora diciottenne. Il pensiero è stato: se Thom Yorke ne parla bene ci sarà pure un motivo (poi vabbe’, in mezzo c’era anche una frecciatina ai Muse, forse gli brucia che sono più mainstream dei Radiohead, chissà, ma è un altro discorso, non sempre quello che un artista serio dice è da prendere per vangelo), allora perché non provare a dare un ascolto al suo album di debutto (che era uscito già da qualche mese)?! Così ci ho provato e ha finito per accompagnarmi per un bel po’.
In diverse occasioni ne approfitto per ribadire che essere pop (se davvero è così necessario esserlo) non è affatto una giustificazione per realizzare prodotti scadenti in quanto il pop è comunque un genere di musica e non un’etichetta da porre sul bidone dell’immondizia e dovrebbe pertanto attenersi alle regole della decenza e della qualità compositiva; Billie Eilish almeno in questo primo album (il dopo è tutto da verificare) sembra rispettarle, anche se gran parte del merito va attribuito al fratello, che ha una responsabilità piuttosto pesante sulla stesura dei brani. In più si impone sulla scena presentandosi come una personalità originale e controcorrente.
Già a partire dalla voce, nell’epoca dei talent show che sono rigorosamente tutti vocali (figurati se ne fanno uno che valorizzi invece gli strumentisti) e sembrano avere tutti l’obiettivo di cercare la copia di Mariah Carey, di Whitney Houston o di Giorgia questa ragazzina invece rompe gli schemi proponendosi con una voce estremamente delicata, sussurrata, vellutata e in un certo senso anche sexy. Una voce che è a tutti gli effetti uno strumento, che si inserisce in una trama sonora che non ha bisogno di urlare o di pompare per farsi apprezzare, il sound si mantiene delicato anche quando tocca l’elettronica più robusta. Siamo onesti, il sound pacato e soave non è mai stato di moda, non è mai stato davvero amato dai giovani, almeno da una trentina d’anni circa; in tutti questi anni i giovani sono stati indottrinati dalla dance, dall’house, dall’r’n’b più volgare e scrauso dove spaccare l’impianto sonoro sembra essere la prerogativa, l’obiettivo. Billie Eilish invece non ha paura di proporre un sound così sussurrato, pure a costo che venga definito “moscio”; questo va a vantaggio del lavoro strumentale, che pur non essendo particolarmente sofisticato riveste un ruolo piuttosto importante, mentre gran parte del pop da classifica non vanta di arrangiamenti di rilievo perché pensa soltanto a far “rumore” qui invece il pop rimane prima di tutto “musica”.
La varietà stilistica è tangibile, e questo fa sì che l’ascolto non diventi mai noioso, favorito anche da una durata non consistente. Ricollegandoci al discorso della dolcezza diciamo che brani come “Xanny” e “The Party Is Over” non hanno certo un sound alla moda, un appeal radiofonico, hanno un’atmosfera rilassata riconducibile perfino ad un certo jazz, ma anche quando si tratta di strizzare l’occhio a sonorità più in voga si nota un certo impegno a mantenere arrangiamenti composti e ben costruiti e a non cadere nella piattezza, pensiamo a “All the Good Girls Go to Hell” dove si cerca l’incursione nell’hip-hop mantenendo comunque una voce calda e accompagnando il tutto con una linea di basso ruvida, metallica e precisa che difficilmente si può trovare in un brano da classifica; perfino quando si incappa in uno dei peggiori mali della musica odierna, la trap, lo si fa in maniera assolutamente decente, “You Should See Me in a Crown” impartisce infatti una severa lezione su come usare quei suoni ipnotici senza che suonino come spazzatura elettronica di una piattezza disarmante.
Non sono da meno le divagazioni nel minimalismo di “Bad Guy” e “Bury a Friend”, dal suono volutamente scarno ma sempre ben curato. Perfino la ninna nanna “8” risulta tremendamente intelligente nella sua semplicità estrema, dalla scelta di dare a Billie un timbro volutamente infantile (altro che gli Aqua di “Barbie Girl”…) fino all’utilizzo dell’ukulele, qui impiegato in una nuova veste riflessiva e cullante, lì dove tutti lo utilizzano per realizzare la solita pacchianata caraibica estiva.
E senza paura ci si spinge anche nella sperimentazione più coraggiosa, se prima citavamo Thom Yorke e i suoi Radiohead ecco che qualche piccolo rimando alla band britannica lo possiamo senz’altro trovare, già la stessa voce di Billie ricorda quella sommessa e depressiva di Thom, il riscontro comunque lo abbiamo nella parte finale dell’album; “Ilomilo” con la sua elettronica inquietante ed ipnotica sembra uscita da “Kid A” (potrebbe ricordare proprio la title-track) o da “The King of Limbs”, ma un po’ tutto il finale dell’album ricalca le composizioni più intimiste del gruppo, con tracce che potevano tranquillamente far parte di “A Moon Shaped Pool”, in particolare “I Love You” che rimanda facilmente a “True Love Waits”.
Ma la scelta di non voler essere l’ennesimo personaggio fatto con lo stampino è riscontrabile anche nell’immagine della ragazza: un viso angelico che non vuole rovinare con quintali di trucco, capelli dai colori improbabili dal retrogusto vagamente punk, abiti larghi con fantasie di disegni o di colori. In pratica lei sta esattamente all’opposto di ciò che la società impone di essere, ovvero devi suonare forte, non devi sembrare arlecchino e devi mettere in mostra culo e tette. Per carità, culo e tette non fanno mai schifo, però fa piacere vedere che c’è anche chi sa andare controcorrente. Sorprende che tutto ciò le sta portando comunque un largo consenso in un mondo in cui le personalità troppo alternative vengono invece emarginate e si devono accontentare di un pubblico ristretto; allora non è poi così vero che la gente non è aperta a cose un tantino diverse dal solito anche se va sottolineato che è comunque musica pop e che dietro c’è comunque un’etichetta commerciale come la Interscope.
Tuttavia questa tizia mi fa paura, mi fa sorgere dubbi su quanto possa effettivamente durare tutto questo meccanismo, ho il timore che questa possa vendersi presto alle melodie facili gettando nel cesso quanto di buono costruito in questo debutto; una che cita Avril Lavigne, Justin Bieber, Rihanna e Ariana Grande come fonti di ispirazione rischia di farsi inghiottire facilmente da personaggi poco raccomandabili; anche il successo improvviso può diventare un pericoloso vortice che potrebbe trascinarla a fastidiosi compromessi per accrescere la propria fama. Billie Eilish si trova in una zona pericolosa, a metà fra il diventare la nuova Björk e il diventare la nuova Rihanna. Spero solo che le mie paure si dissolvano, intanto quest’album di debutto è promosso a pieni voti.
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