Notoriamente, pochi suoni sono amari e struggenti quanto quelli polverosi provenienti dal sipario che cala. E "Lady in Satin" ne è certamente ulteriore dimostrazione. Questo celebre e controverso album contiene le ultime registrazioni della divina Billie Holiday, effettuate nel febbraio del 1958.
Celebre perché costituì una sorta di testamento artistico di colei che, con la sua magica voce, aveva dato in pasto il jazz alle masse, dipingendolo con infuocate iridescenze blues: dì lì a poco il fegato e il cuore di Eleonara Fagen (suo vero nome) si sarebbero arresi dopo una vita disseminata da abusi chimici, laceranti passioni e infelicità. Ciò conferì drammaticità e intensità spaventosa al piglio con cui la Holliday rese standard come "You've changed" o "You don't know what love is".
Controverso in quanto l'ultimo viaggio terreno di Billie fu traghettato da un'orchestra di 40 elementi, diretta magistralmente da Ray Ellis. Un accompagnamento monumentale, dal sapore cinematografico e a tratti debordante, che ancora oggi fa storcere il naso a puristi jazz e agli stessi esegeti hollidiani.
Non ci interessa sviscerare in questa sede tale annosa diatriba. Ciò che è certo è che la stessa Holiday considerava questo il suo album più riuscito. Forse perché conscia che, essendo le sue capacità vocali state inficiate dalle variegate vicissitudini della sua esistenza, proprio col sagace e romantico uso degli archi si poteva supplire, e invertire con un colpo di coda la tendenza di una carriera da tempo declinante. L'ascolto di "Lady in Satin" in effetti lascia intuire come certi arrangiamenti, in alcuni frangenti così estatici e maestosi da sembrare usciti dalla penna di Morricone o John Barry, abbiano costituito una spinta emotiva non indifferente per la Holiday.
E poi quella voce, per quanto ferita e incrinata, era ancora in grado di incantare, di riaffermare un archetipo fondamentale per tutto il Novecento (un nome a caso: Portishead) e di fendere la pur imponente corteccia orchestrale. Semplicemente lancinante, come nella quintessenziale "I'm a fool to love you", epitome di tutti i tormenti che costellarono la vita di Billie Holiday.
Il migliore degli addii possibile, dunque: non solo al mondo, ma soprattutto a una parte di se stessa che non avrebbe mai potuto rinnegare.
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