Il folletto è tornato, con la polvere di stelle negli occhi e incantesimi disegnati sul viso.
Quando parlo di Bjork rischio di passare dalla parte del fan sfegatato. Nulla da fare: lei è la mia musa ispiratrice, la mia anima errante e il mio sangue. Ogni volta che ne parlo rischio di finire nel sentimentalismo più puro, nell'iperbole dell'amore primordiale. Ma ora sono sicuro. Credo sia impossibile non innamorarsi di un album come "Biophilia", vera e propria opera d'arte, disco fatto di sospiri, suggestioni e battiti, dove si incrociano tutti gli sguardi limpidi della dolce sirena nordica: quella più trascinante e quella più squisitamente sepolcrale.
Un disco che si apre con una fantasia scenica come "Moon", straordinario sussurro di costellazioni e vie lattee, di sentimento poetico e di lirica bellezza. Limpida, confortante e terribilmente trascinante, è una di quelle canzoni che non si scordano facilmente, fino a che una svolta finale di meravigliosa carnalità ne esalti le gesta: quando vuoi ricominciare, parti dal tuo misero fallimento e getta tutto ciò che l'ha causato al punto di partenza.
E poi arriva "Thunderbolt", un pezzo indimenticabile che, con concitata violenza, ti trascina nel più oscuro degli oblii. Una tempesta di silenziosi tuoni e lampi che marchia la carne a fuoco, con una passionalità che raggiunge vertici inimmaginabili. "Crystalline" è la danzante parata easy-listening dei cristalli, estremamente colorati e scintillanti che esplode in ritmi e danzanti gameleste e che poi, inaspettatamente, esplode in uno dei finali più esplosivi mai raggiunti da Bjork: violentissimi vulcani in eruzione, che aspettano solo di distruggere ogni cosa. E così sarebbe se poi la splendida dolcezza di un'ariosa "Cosmogony", ballad con biglietto di sola andata per l'Eden, non avvolgesse l'ascoltatore in tutta la sua profondità.
Poi, caduta libera all'inferno. "Dark Matter" è un pezzo breve, ma sepolcrale e sacro, che amoreggia con le tenebre e le rende musica. Gioiello di intensità, costellato di suggestioni epiche, di squarci che portano verso una sofferenza inaspettata e travolgente, che continua con "Hollow", capolavoro indiscusso del disco, dove la sacralità si traduce in un organo sostenuto e di cori e voci che, pur nella loro oscurità danno redenzione e speranza. È un pezzo incancellabile, della calma stridente che viene dopo un violentissimo temporale.
E quando pensi che sia lì che il disco abbia raggiunto le sue massime, ecco "Virus", tra le più belle canzoni d'amore mai scritte. Un amplesso di eros e thanathos tra un organismo vivente e un virus mortale tradotto nella melodia più dolce, ma mai stucchevole, che si possa ascoltare. "Virus" ruba un pezzo di cielo e lo traduce in musica celestiale.
"I feast inside you. My host is you".
L'organismo è morto, ma si può continuare ad amare sempre. All Is Full Of Love.
E in "Sacrifice", prima ancora di pensare che ci si potesse addentrare pericolosamente in un occhieggiante prewar folk, la canzone viene sconvolta dall'irruzione egoistica di esplosivi beats elettronici di rara bellezza e potenza.
Ma la bellezza non s'arresta, e questo saggio di emozioni viscerali si chiude con due pezzi con la P maiuscola. In primis "Mutual Core", esplosiva e leggera furia elettronica di scenari naturali che, prima stordisce nel suo volteggiare concitato e poi apre inaspettatamente le danze. E infine, "Solstice", l'ultimo minimale sguardo verso gli astri e non ritorno. Ti spedisce lassù, tra le nuvole. Con un ultimo bacio sulle palpebre chiuse.
E ancora una volta è amore. La nuova grande promessa di un'artista che non ha mai smesso di muovere l'anima, mia e di molti altri adepti che amano viaggiare tra le loro tempie. Un orgasmico capolavoro che, credo, non abbandonerò mai. E non esagero. O forse sì, ma non importa. Lasciatemi amare in silenzio.
"My Romantic Gene Is Dominant"
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