Il 1984 fu l'anno cardine per l'hardcore punk: videro difatti la pubblicazione lavori d'importanza storica come "Zen Arcade" degli Hüsker Dü, uno di quei pochi grandi dischi alternative che incontrarono favore commerciale, e "Double Nickels On The Dime" dei Minutemen, disco che li consacrò nell'Olimpo degli esponenti del genere (sebbene fosse la loro fatica più sperimentale).  Per i Black Flag era giunto invece l'anno di muoversi verso direttrici più heavy, pur restando abbastanza fedeli all'hardcore nichilista di cui s'erano fatti portavoce nel 1981 con il loro masterpiece, "Damaged". Risultato di tali sperimentalismi fu "Slip It In", i cui effettivi meriti vennero messi in ombra dal successo del sopraccitato "Damaged".

Solitamente le titletrack deludono ("It's A Shame About Ray" dei Lemonheads costituisce un valido esempio), "Slip It In" si rivela anzi un'opener a dir poco coinvolgente: parte con una linea di basso, ad opera dell'esordiente Kira Roessler, ben costruita; si fanno notare poi gli improving chitarristici di Greg Ginn. La traccia è un sensuale duetto tra Henry Rollins e l'allora quindicenne Suzi Gardner (futura cantante/chitarrista delle L7): sui gemiti orgasmici di quest'ultima si elevano dei riff di chitarra stupendamente spasmodici e un assolo che si rivela il dominatore, lo spannung del pezzo. Il culmine lirico avviene nel ritornello, dove Rollins, con aria di superiorità, lancia la pesante invettiva: «You say you don't want it, but then you slip it on in». Non sfigura nemmeno la seguente "Black Coffee": dall'attitudine metallara e rumorosa, s'articola tra stacchi improvvisi e riff memorabili, vantando inoltre un assolo povero di note ma suonato con pura passione. La voce roca e malata di Rollins è esaltata massimamente nella tiratissima "My Ghetto", un hardcore fugace alla maniera dei colleghi Hüsker Dü che esprime quanto mai la disperazione in urla nichiliste ed i rumori di un amplificatore che aprono e chiudono il pezzo, dal titolo che ricorda purtroppo un topos delle liriche rap.

Gli Hüsker Dü, se non superati, vengono almeno raggiunti nell'ottima "Wound Up": dall'atmosfera tesissima,  culmina in un assolo di Ginn da far allibire Sex Pistols e Ramones, che in vita loro non riuscirono a combinarne uno decente. Rollins in alcune posture vocali ricorda lontanamente il Jeffrey Lee Pierce di "Sex Beat", ma questo è da ritenersi un paragone abbastanza soggettivo e sottile. Di complemento una sezione ritmica semplice ma ben inquadrata.

L'hardcore diventa un ricordo sbiadito in "Rat's Eyes", dove (sfortunatamente) il metal ha le redini in mano, persino la voce di Rollins è falsata e tenta disperatamente di darsi un'impostazione che si convenga al genere, evidentemente non nelle sue corde. La band cerca di ricreare in questo pezzo atmosfere troppo heavy che inevitabilmente snaturano il loro sound tipico, rendendolo una forzatura.

Il connubio hardcore-heavy metal rende invece alla perfezione nella strumentale "Obliteration", in cui gli strumenti appaiono abilmente sconnessi tra loro: la chitarra di Ginn si esibisce in un eloquente monologo, mentre la batteria si presta a diverse variazioni e il basso esegue solennemente il proprio marziale loop.

La vera innovazione di "Slip It In" fu una concezione di minutaggio impensabile all'epoca per le band hardcore, le cui canzoni sfioravano appena i due, massimo tre minuti di durata. I Black Flag dimostrarono che un brano hardcore poteva durare benissimo anche sette minuti, e a suffragio di ciò pennellarono la conclusiva "You're Not Evil".

"Slip It In" risente molto del complesso d'inferiorità rispetto a  "Damaged", che vantava gemme del calibro di "Depression", "Rise Above", "Gimmie Gimmie Gimmie" e "T.V. Party"; per questo motivo rimarrà l'album più sottovalutato della band californiana.

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