Ci sono giorni che andrebbero dimenticati ma che hanno un suono tutto loro, un suono che talvolta porta grazia e tormento a chi lo sente, a chi è così sensibile da poter percepire le rifrazioni di luce dove non dovrebbe esserci altro che ombra, anche se la luce assume sfumature di grigio che tendono ad assorbire i sentimenti, una spugna che si troverà ben presto zeppa di qualcosa che avrebbe voluto lasciare fuori.
Black Math Horseman è uno di questi riflessi, che si specchia nei nostri occhi e si traduce sbattendo sul fondo del cranio in virbazioni che, piano piano, vanno a costruire una crepa nel cuore. "Wyllt" è questo, un satellite sfuggito all'orbita di un pianeta desertico, che tende a viaggiare attraverso spazi ampi e vuoti. Mentre i suoni fuoriescono dai crateri, a presenziare all'accadimento, si trova un guru magico che ha vissuto per anni sotto l'influenza della sabbia rovente del sistema Kyuss, Scott Reeder, che scorgendo le quattro creature abitanti gli angusti antri del satellite, ha deciso di donare un po' del corpo del posto da cui proveniva. Missione ampiamente compiuta. L'assoluto splendore dei suoni ha un nonsochè di mistico, estremamente retrò, estremamente pieno. La creatura spiega le ali con "Tyrant", una marcia possente e degli echi spettrali, poi le due chitarre che intrecciano melodie che si completano l'un l'altra, da una parte quasiindie, dall'altra moltotexmex, poi viene steso il tappeto grigio per l'entrata del soffio vocale di Sera Timms, che accompagna il tutto con un basso di lava bollente, che dalla seconda strofa intreccia alla perfezione le sei corde, fino all'esplosione elettrica, un cumulo di macerie che frana sulla testa di chi era in attesa.
La tellurica "Deerslayer" riporta alle origini, alla trinità ferale, BlacksabbathKyussMelvins, il pezzo apre ad una palata di chitarre distorte e cadenzate e senza pietà che spianano la strada per il corpo etereo di una strofa fatta di melodie in echi lontani, chorus, voci accarezzate, una messa nera al nadir, crescendo lasciati a metà che si spengono per poi implodere. C'è un tocco di nervosismo in "Origin Of Savagery" che porta i ritmi ad accellerare, le melodie sempre sospese in aria assumono tempi obliqui e ossessivi. I quasi dodici minuti della finale "Bird Of All Faiths And None/Bell From Madrone" sono un concentrato di dolore in arpeggi che molto devono alla sporcizia dei chorus dello shoegaze, fango in onde sonore che innalzano la voce ad un livello superiore di odio etereo, il registro si sposta nell'odio espresso senza mancare di rispetto alle dolci corde vocali di Sera, che però si tendono fino a diventare taglienti, il liquido nero che ne cola è corrosivo e isterico, e quando torna melodico è di nuovo foriero di malattie mentali spaventose che portano alla fine del viaggio in una coda disperata, tirata per i capelli dalle chitarre che lasciano una traccia spaventosa in chiusura.
E al calar del sole di queste giornate terrificanti i suoni si spengono lasciando solo un senso di inquietudine perpetua.
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