America. America persa tra i deserti della California. America scorta passeggiando per Lexington. L'America con il "sole di sigarette" di Bukowski.
"America" che, se fosse un romanzo, potrebbe iniziare così:
"C'era una volta un Cotter qulasiasi che, per caso, si ritrovò a guardare il match di fine stagione dei Giants nello stesso stadio dove, non a caso, era presente Edgar J. Hoover. Il tutto mentre il primo era intento a sgusciare noccioline, il secondo aveva invece a che fare con un ben poco "jazzisticamente stilizzato" Frank Sinatra."
Dicevo, potrebbe che potrebbe iniziare così se fosse un romanzo. Ed io fossi Don De Lillo.
Ma questi sono i Black Rebel Motorcycle Club. Questo è un disco. Ma l'America, quella, è sempre lei. "Howl", ovvero il famoso urlo di Allen Ginsberg. Urlo esploso durante una festa finita prima ancora di cominciare. "Howl", ovvero un inno ai cantori della "Beat Generation", se ancora la si può definir tale. Il disco che non ti aspetteresti da una band con una macchina sonora così ben collaudata e maledettamente vincente, e invece ecco cosa ti tirano fuori! Un ritorno alle origini, ai Black Rebel che erano e che, come riferiscono, sono sempre stati. Decisamente molto country, come il miglior Rock'N' Roll made in Usa. È già tutto chiaro con l'iniziale "Shuffle Your Feet", il suo "Time won't save our souls" e le acustiche alla Bob Dylan.
Agrodolce, a tratti stridente, con armoniche a bocca degne del miglior Neil Young (magari quello di "Harvest Moon") in "Fault Line", che è un folk alla Johnny Cash. Black come l' Eddie Vedder di "Alive". Pezzi come "Howl" ricordano, per certi aspetti, il Lou Reed polemico e cantautorale di New York, in modo particolare "Last Great American Whale". Uno dei pezzi migliori è sicuramente la ballata "Devil's Waiting" con il suo gospel rock'n' roll e una voce maledettamente blues. Così come "Ain't No Easy Way Out".
Il piano di "Promise" è sicuramante il miglior sponsor dell'intero disco: semplicemente sofferta. Poi c'è "Gospel Song", ed è di nuovo il momento di un blues sussurrato, cantato come forse farebbe solo Mr Mark Lanegan con la sua verve di gentiluomo americano.
Ma la verità è che gli emuli di Mr Stanley Kowalski non somigliano a nessuno, per fortuna.
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