35 anni. 35 lunghissimi anni ci separano dall’ultimo disco in studio dei Black Sabbath in formazione originale, quella di album storici e seminali come Paranoid (1970), Master of Reality (1971) o Sabbath Bloody Sabbath (1973). Le speranze di rivedere mai i quattro fabbri di Birmingham picchiare di nuovo duro insieme sembravano destinate a spegnersi progressivamente, con il passare lento ma inesorabile degli anni e degli impegni solisti di ciascun membro (quelli di Ozzy su tutti).
Nel corso dei lustri qualche scintilla di riavvicinamento si è manifestata: si pensi al fortunatissimo tour di reunion imbastito a fine anni ’90, con conseguente album live - Reunion, appunto – oppure a qualche sporadica apparizione al carrozzone itinerante di Osbourne, L’Ozzfest, nel 2005.
Un disco di inediti (se si escludono le due tracce rilasciate su Reunion, Psycho Man eSelling My Soul) mancava però effettivamente dal 1978, con la stravagante prova offerta dai nostri in Never Say Die.
L’11/11/11 (data volutamente particolare ed evocativa), i Sabbath tengono una mega conferenza in quel di Hollywood, annunciando un nuovo disco ed un tour mondiale subito dopo.
L’intero globo terracqueo impazzisce completamente: il fenomeno del Sabba Nero torna a far parlare di sé dopo anni di silenzio, incredibile!
Ma le disgrazie sono sempre dietro l’angolo, purtroppo.
Ad inizio 2012, a sua maestà Tony Iommi viene diagnosticato un linfoma. Ovviamente l’intero progetto è in serio pericolo, con buona pace dei fan (comunque preoccupati per la saluta del loro idolo, affetto da un male tremendo che già si portò via il buon Ronnie James Dio poco prima).
In più, come se non bastasse, lo storico batterista della formazione inglese Bill Ward decide di dare forfait ai suoi compagni: complici alcune beghe contrattuali ed insoddisfazioni sul compenso stipulato per l’album/tour (ad oggi non ancora chiarite!) il “drummer dal piglio jazzato” manda a monte mesi e mesi di attese per quattro spiccioli.
Tutto finito? Neanche per sogno. Stiamo parlando dei Black Sabbath!
Viene reso noto che a sostituire Ward sul seggiolino della batteria sarà Brad Wilk, direttamente dai Rage Against The Machine.
Terminati questi prolissi ma necessari (a mio modo di vedere) cenni riassuntivi, possiamo parlare del full-lenght nella sua interezza.
Abbandonando ogni sovrastruttura, ogni inutile orpello riguardante contratti, soldi, esposizione mediatica e quant’altro (il mondo musicale è anche questo oggi, sfortunatamente) lasciamo che sia lei a parlare, l’unico giudice insindacabile: la Musica.
13 è un bell’album? Sì. E’ un album degno del pesantissimo nome che porta in dote? Assolutamente. Era necessario? No, non proprio. Nessuno sarebbe morto senza un nuovo lavoro di questi vecchietti del rock, che non hanno e mai avranno nulla da dimostrare a nessuno, dopo aver sfornato capolavori seminali negli anni ’70.
Il discorso è questo: se tre signori 60enni pieni di soldi fino al midollo, al posto di ritirarsi in qualche placida isola caraibica a bere Piña Colada tutto il giorno guardando culi e leggendo riviste di moda, hanno deciso di rimettersi in gioco e sfornare 11 nuove canzoni (otto nell’edizione standard + 3 bonus track), il loro lavoro merita almeno un ascolto. Giusto così, per rispetto indotto, per una sorta di venerabilità insita in ognuno di noi, dinanzi a questi mostri Sacri.
Il platter parte alla grandissima: Mr. Iommi ci fa subito capire che le cure periodiche di chemio a cui si deve sottoporre non l’hanno scalfito di un millimetro. E’ End Of The Beginning a riaprire i giochi dopo 35 anni, e lo fa maledettamente bene! Un riff che più sabbathiano non si può fuoriesce dalle casse dello stereo, Wilk pesta a dovere e Geezerentusiasma con le sue pennellate apocalittiche sulle quattro corde del suo basso. Echi (o forse qualcosa in più) di Black Sabbath (la prima traccia dell’album eponimo) sono lampanti, ma al sottoscritto non può che far piacere. La traccia scorre via tra liriche stranianti, tipiche del combo inglese, e pachidermici riffoni fino a quando… eccolo! Il cambio di tempo – vero e proprio marchio di fabbrica di sua maestà Iommi – irrompe massiccio: due giri e via, batteria e basso all’unisono ci conducono verso la fine! Ottimo assolo (c’è da stupirsi?) ed il ghiaccio è rotto.
Fan e detrattori, devoti e profani, possono stare tranquilli: i Sabbath sono sempre loro, nel bene o nel male!
Giungiamo alla seconda traccia, il singolo uscito in anteprima e già brano di culto: God Is Dead? è dominata da un arpeggio tanto basilare quanto efficace e luciferino, fino alla devastante “accelerazione controllata” sul finale.
Fin qui Ozzy se la cava di mestiere, con le solite sovraincisioni vocali degli ultimi dischi in studio, ma ragazzi, è sempre lui! La sua voce è come una cantilena mefistofelica, perfetto connubio con i riff destabilizzanti di Tony, oggi come ieri.
Il disco prosegue con Loner, primo mid-tempo della tracklist. E’ una canzone immediata e grintosa, che nelle aperture melodiche pre-ritornello ricorda qualcosa dei lavori di Osbourne solista. Ottimo pezzo!
Zeitgeist, unica ballad del disco, si apre con una risata maligna del Madman, per poi evolversi in un viaggio etereo nello spazio più profondo. Chitarre delicate e soffuse ci accompagnano nel trip con bonghi interstellari in sottofondo. Le somiglianze con Planet Caravan, ballata contenuta in Paranoid, si sprecano. Anzi, la 4 traccia di 13 sembra un vero e proprio “autoplagio”, tanto l’atmosfera quando le strutture ricordino la gemella scritta più di 40 anni fa; per me è solo una piacevole notizia, ma so già che per molti altri sarà un buon motivo per accusare il gruppo di “scarsità di idee”. Amen!
Dopo aver ripreso un po’ fiato, è Brad Wilk a ricordarci quale gruppo stiamo ascoltando! Un semplice quanto efficace intro di batteria ci introduce a Age Of Reason, insieme al solito riff terremotante. Da segnalare l’ottimo assolo ed il devastante cambio di tempo (ahhh, ma quanto ci piacciono!?) verso i 4 minuti. Una traccia che spicca tra le più riuscite, senza dubbio.
A seguire troviamo Live Forever, l’unico up-tempo del disco standard. Un pezzo piuttosto telefonato, senza nessun particolare da segnalare. Solita coda solistica da applausi, e ci va bene così!
Damaged Soul è, per il sottoscritto, l’apice di tutto. Suoni indistinti ci danno il benvenuto, per poi esplodere in un riff sporchissimo in slide. Questo è il “blues satanico” di Iommi che tanto amiamo! La traccia sembra provenire direttamente dal primo LP della band, quel Black Sabbath che tanto ha emozionato ed innovato. Questa è una jam travestita da canzone, tanto è ricca di soli, uno dietro l’altro, sporchi, ricchi di groove, maledettamente marci e indiavolati! Tony ha voluto rendere omaggio alle sue origini artistiche, facendoci capire che da qui tutto è partito. C’è spazio addirittura per un’accelerazione sul finale, davvero roba da strapparsi i capelli.
Chiude il disco Dear Father, un’altra buonissima prova dei quattro. La canzone ricorda nella struttura la prima e la quinta traccia, e questo non può che essere un bene! A fine pezzo, ecco la chicca. Fulmini, tuoni, rintocchi di campane… un brivido glaciale non può non scorrere sulla schiena di ogni fan del Sabba Nero, nel sentir terminare nello stesso modo in cui tutto era cominciato. Applausi e lacrime!
Siamo giunti al termine del nostro viaggio. Confusi, togliamo il cd dal lettore e rimaniamo a fissare il vuoto. Siamo contenti, dal profondo. La paura che tutto questo potesse rivelarsi una stanca operazione commerciale arraffa-soldi è svanita. Rimane solo quel giramento di testa e quella sensazione di leggero tremolio che si prova solo dopo aver ascoltato un capolavoro; se poi questo giunge da tre dinosauri in età pensionabile, il godimento è amplificato all’infinito.
Grazie, Black Sabbath.
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