Still falls the rain.

Tanto fu funesto il tuono che l'antica burrasca sonora rintoccò ancora le sue primordiali cadenze mortuarie.

Non c'è limite alla riscoperta delle proprie radici quando i germogli delle loro ramificazioni fioriscono dai semi della piena maturità. Anzi quanto più l’emersione simbolica di se stessi è sentita, tanto più spontanea diventa la necessità di regredire: tornare all’alba della propria espressività per rifletterne i confronti è una irreversibile legge di natura quando il processo creativo erompe trasportato da ali evasive.

Così come in tanti fattori scatenanti delle esperienze umana, John Michael “Ozzy” Osbourne, Terence Michael Joseph “Geezer Bulter, Anthony “Tony” Iommi e Williams Thomas “Bill” Ward, intingono nella loro creatura “Black Sabbath” tutto il ribollente calderone aggrovigliato dalle frustrazioni ottuse d’una società bigotta e moralizzatrice.

Trapelando come un fiume carsico, il desiderio di riscatto verso un’esistenza altrimenti vuota si incuba dentro forme d’arte immaginifiche: e così nel dozzinale torpore di Birmingham l’interesse di 4 ragazzi verso la spiritualità alternativa, occultismo, ucronia e religione dissolve le effimere velleità hippie per tradursi in un vulcano di suoni esorcizzanti; nelle ambizioni della loro anima il desiderio dello spirito proletario di staccarsi dall’angosciante microstoria per anelare al cielo.

Ne seguono otto album di cui almeno 6 summa espressiva di immaginari plumbei, elegie sepolcrali, scenografie mortifere e rifugi di fantasie grottesche. Poi come in tutte le favole, bianche, nere o rosa che siano, quella magia si intorpidisce e la creatura dall’indole innovativa inizia ad incepparsi. Lotte intestine, malcelati dissidi interni e subdoli confronti egomaniaci portano allo sfaldamento della prima Line Up. Ne seguiranno altre, tutte diverse, dove ad eccezione dell’eterno Iommi, si avvicenderanno nomi più (Dio, Gillan) o meno (Hughes, Martin) noti della scena Metal, ma un po’ come nella settima rilettura di A Nightmare on Elm Street (Wes Craven's New Nightmare), lo spettro originale del protagonista non cessa mai di tormentare gli attori che gli hanno dato vita.

Quel profondo senso di ribellione, cultura non allineata e desiderio di riscatto sociale che aveva legato i quattro iniziati, ad onta delle (più o meno) brillanti carriere soliste, rifluisce nelle loro vite per indurli a ricomporsi.

E così, dopo parziali e sporadici ricongiungimenti, 35 anni dopo l’ultimo en plein l’ultradecennale desiderio di una restituito ad integrum si realizza quasi come tutti lo avrebbero voluto. Non è tuttavia una ricomposizione uguale alle origini perché l’integralismo dell’insostituibile Bill Ward, prevaricando le nostalgie, permette che il raffronto con il passato sia consentito “solo” ai 3/4 dell’esordio. L’assenza non è cosa da poco perché in quell’organigramma strutturale il peso della Band era il peso dei 4 sovrastrutturato. Nonostante questo, però, la ricostruzione orfana presenta un sostitutivo membro ombra; Rick Rubin, rabdomante retrospettivo che della memoria innovativa aveva già dato lustro nelle ascendenze rievocative dei Metallica.

Tutto quell’apparato immaginario costellato da demoniache spirali superumane, angosce quotidiane, allegorie fantasmagoriche e fantasie grottesche disegnato nel 1970 viene così rievocato in otto brani (oppure undici, nell'edizione deluxe) la maggior parte dei quali rivestiti da fisionomie cripto progressive. E che il ritorno sia stato concepito all’ombra delle sperimentazioni del disco d’esordio e soprattutto di Vol. 4 e Sabotage lo dice il kilometrico duo d’apertura: pachidermiche epicità soffuse in taglienti cambi di tempo e caustici riff contaminati da edacità graffianti si scagliano funesti nelle dinamiche apocalittiche di End of the Beginning. 40 anni e passa divampano in maniera atemporale in uno dei riff più grevi della storia del Rock; il ricordo del primo vagito invade la scena in maniera condensata, quasi a voler riproporre un compendio senza soluzione di continuità con il già accaduto. Si tratta però solo d’un fievole barlume ingannevole perché la traversata commemorativa di colpo passa attraverso Dirty Woman per poi svilupparsi ed epilogare in maniera autonoma. Il discorso viene poi ulteriormente confermato e sviluppato nel nichilismo esasperato della titanica God is Dead, questa volta però partendo da una sinderesi tanto occulta quanto sfumata con le “ultime” Eternal Idol e Kiss of Death. Una litania intrisa di sinistre crepuscolarità sfocia in una suite straordinaria prossima ai 10 minuti; mastro burattinaio uno Iommi dalla carriera ultraquarantennale che specchiandosi nelle prime progressioni melodiche espresse in Wheel Of Confusion e Megalomania le riflette rielaborate dentro canali ultramoderni. Riletture sibilline anche nel terzo brano; racchiuso dentro un minutaggio più contenuto l’embrione di N.I.B. si sviluppa in Loner e nella voce ovattata di Ozzy adatta l’impulso replicante.

Lo stupore di tanta rievocazione lungi dal sminuirsi, aumenta a dismisura esattamente a metà del disco: gli smarrimenti labirintici dispersi dentro galassie remote e i rapimenti diafani sotto cieli interminabili evocati da Planet Caravan rinascono in Zeitgeist. Un dolce deliquio di assoluta autocitazione ripete la struggente solitudine di 43 anni prima; ne viene fuori un’istantanea smarrita nei bauli del tempo e ripresa con lo scopo di re immortalarne il paesaggio. Non è però un ritratto dall'espressività speculare: per quanto l’occhio clinico sia addestrato a scavare nella memoria, la discesa nei ricordi deperisce fisiologicamente e quando incantesimi ad hoc tentano di rianimarla, la magia non è più la stessa.

Diverso discorso per il 5° brano, Age of reason, che adattando l’asse portante di fraseggi rocciosi con l’effettistica di tastiere complementari, quasi inconsciamente lascia ricordare che tra Never say Die e 13 ci sono stati anche Headless Cross e Tyr.

Live forever e soprattutto Damaged soul dalle retrovie granitiche scorrono via trascinate da quel Trademark tipicamente funereo e rallentato che nelle tele genealogiche suppone archetipi hobbesiani: l’incomunicabilità della vita, giudicando il diverso in modo disonesto, ne ispira gli istinti auto affermativi.

In tutta questa implosione scenografica, quanto sia ovvia la naturale tendenza all’autodistruzione circolare ci viene detto soprattutto dall’ultimo tassello.

E’ infatti una vera e propria coazione a ripetere occhiuta l’apocalisse in coda: Dear Father segna l’eclissi totale di un’antica stella riaccesa dal passaggio d’una cometa. Una rigenesi grigia che riavvolge un nastro nero scritto tanto tempo fa.

Cronache crepuscolari riattivano i punti di forza giovanili e attraverso implicite righe primordiali sovrascrivono ambizioni antiche. Per un attimo le convulsioni temporalesche dell’esordio tornano a cadere. Dentro meste chicane silenziose processioni d’ombrelli immaginarie cantano progressioni aperte al soprannaturale; oscuri ritorni di echi bagnati evaporano via nell'incipienza mortifera. E’ “L’inizio della fine” o “La fine dell’inizio”? Intuizione troppo difficile per l’incognita umana, la risposta vive dentro l’illusione:

Reanimation of the sequence rewinds the future to the past. To find the source of the solution the system has to be recast…

yet still, by the lake a young girl waits, unseeing she believes herself unseen, she smiles, faintly at the distant tolling bell, and the still falling rain..”.

Ad Maiora.

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