Nel 1986, i Black Sabbath sembravano essere arrivati al capolinea: della formazione originale era rimasto il solo mitico baffone Tony Iommi, e la tanto paventata reunion con Ozzy (vociferata dopo una loro unica esibizione al Live Aid dell'85) non avvenne, con quest'ultimo oramai alle prese con il successo del suo ultimo lavor "The Ultimate Sin" e con il tour mondiale che ne seguì.

A quel punto, Iommi cominciò a scrivere e registrare materiale per un album che sarebbe dovuto uscire sotto il suo nome, ma che in realtà uscì sotto lo strambo monicker "Black Sabbath featuring Toni Iommi" (??), probabilmente per ovvie pressioni della casa discografica che voleva un nome forte che potesse in qualche modo richiamare l'attenzione del pubblico. Assoldato Eric Singer alla batteria, Dave Spitz al basso e Geoff Nichols alle tastiere, la line up fu completata dal nientepopodimenoche mitico Glenn Hughes ex cantante-bassista dei Trapeze/Deep Purple MK 3, che si accingeva a regalare una delle sue più belle interpretazioni vocali su questo "Seventh Star".

L'album, fin dalle prime battute, mette in luce una cosa: del vecchio sound dei Sabbath è rimasto poco o niente, con le cadenza doom del precedente "Born Again" sostituite da un heavy metal di stampo classico ed esempi ne sono l'energica opener "In For The Kill" e la veloce "Turn to Stone", e addirittura anche dal sapore "americano" con una ballatona in puro stile Jouney o cose del genere, che comunque non è sinonimo di schifezza, tutt'altro, anche perchè con un cantante come Hughes si può passare da ritmi indiavolati a pure incursioni "sentimentali" che sanno emozionare, senza troppi patemi; un Glenn Hughes che svetta anche sulla title track, introdotta da echi di tastiere e soffi incessanti del vento che ci trasportano verso ere distanti e misteriose: canzone dalle atmosfere egizie e oniriche, con un riff monolitico che segue il racconto del  "narratore", culminante con il suo epico ritornello e che finisce così come era iniziata, trasportata dall'eco del vento. Capolavoro.

Si prosegue con il riffone metallico di "Danger Zone" (riff che mi ricorda molto vagamente l'attacco di "Heading Out To The Highway" dei Judas Priest), ma c'è spazio anche per reminescenze blues con "Heart like a Wheel" con la batteria e la chitarra che entrano pian piano per poi dar vita ad uno show in cui Iommi da il meglio di se, lasciando per un'attimo da parte il cantante: davvero convincente qui Iommi con riff e assoli stupendi (già, ma dov'è la novità?); peccato solo che la canzone finisca quasi all'improvvviso, cosa che lascia un'attimo spiazzati all'inizio visto che poi la canzone successiva "Angry Heart" cambia totalmente le sonorità, ritornando su binari prettamente metal. Il disco si chiude come meglio non poteva con quello che è il punto più alto del disco insieme a "Seventh Star": "In Memory...", questa volta strettamente collegata alla precedente; qui Hughes è semplicemente fuori parametro, con quel cantato a metà tra il disperato e rassegnato nel ricordare la scomparsa di una persona cara (bellissimo il testo, nella sua semplicità); canzone di un pathos incredibile che lascia un scia di malinconia e un senso di triste rassegnazione: quasi da lacrima agli occhi, se la ascoltate col cuore.

Cosa aggiungerere se non che ci troviamo di fronte all'ennesimo capolavoro dei "Black Sabbath" (anche se qui sarebbe più corretto parlare del solo Iommi): un disco che convince a pieno in tutte le sue parti e che sicuramente possiamo elevare come uno dei migliori dischi, per il suo genere, degli anni '80. L'unico rammarico è che il buon Glenn abbandonerà la barca dopo solo pochi concerti, anche a cusa dei suoi arci-noti problemi di dipendenza: un peccato perchè se la collaborazione tra lui e Iommi (che verrà ripresa molti anni dopo, ma questa è un'altra storia) ne sarebbero venuto fuori sicuramente lavori interessanti anche più di quello i Sabbath proporanno in seguito.

Carico i commenti...  con calma