Avete presente quel compagno di classe che il primo giorno di prima elementare ti chiama in disparte per spiegarti che lo scarabocchio che ha appena inciso sulla lavagna è “la figa pelosa”?
O quando siete stati cacciati da una festa perché la potenza di un rutto è talmente detonante da urtare irreversibilmente la sensibilità dei genitori dell’amico che compie gli anni ?
Vi è mai capitato di assistere estasiati a una gara a chi produce la fiammata più lunga incendiando le proprie scorreggie ?
E di trattenervi dalle risate al funerale di vostra nonna perché l’elogio dell’ignaro officiante non rispecchiava minimamente l’umbratile indole dell’anziano parente ?
D’altronde egli non poteva sapere delle percosse inflitte agli altri degenti dell’ospedale o dei prolungati peti che propagava lungo la panca della chiesa a ogni veglia natalizia.
Vabeh … ma vi chiederete che cazzo c’entra tutto questo coi Black Tusk.
C’entra.
Perché questo è il livello d’ignoranza, sfrontatezza e insolenza “musicale” che potete riscontrare tra le tracce di questo lavoro del trio di Savannah, il cui genere è da loro stessi definito “swamp metal” (che stronzata megagalattica).
Ovvero una melmosa commistione di sludge, echi stoner e doom, punk core … insomma, la solita roba da drogati ma con il dono della sintesi (i pezzi raramente superano i quattro minuti) e impreziosita dall’artwork dal sapore art nouveau della copertina realizzata da John Dyer Baizley (si, il novello Alfons Mucha frontman dei Baroness).
Prendete questa descrizione e moltiplicatela per ognuno degli album prodotti dai Black Tusk, tanto sono tutti uguali.
I Black Tusk non hanno inventato un cazzo ma c’è modo e modo per esser talmente crassi e grevi.
Ecco, questo è il modo giusto.
Come il piccolo Vincenzino che disegnò la figa, come un inaspettato rutto sparato in faccia ad adulti rispettabili o come mia nonna.
Che avrebbe colpito con il suo bastone grattaschiena anche le teche craniche di questi tre individui.
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