Questi “Fumo di more selvatiche” (!) sono la realtà musicale che attualmente gode della mia maggiore attenzione, nel senso di frequente, approfondito e appassionato ascolto. Trattasi di un quintetto di Atlanta che suona classico southern rock molto composto e scevro di qualsivoglia eccesso, sia solistico che rumoroso oppure lirico. Il loro gusto è decisamente orientato verso canzoni compatte, a descrivere semplici storie di tutti i giorni… non v’è animosità strumentale né individualismo, i musicisti sono costantemente proiettati verso un amalgama ed una comunanza sonora che non prevede prime donne, avanzate al proscenio per più di otto battute, stranezze o esperimenti. Il risultato è quanto di più vintage ci possa essere, nel senso migliore e positivo del termine… l’effetto è simile a quello di guidare una Gran Torino dopo anni di Suv, crossover o utilitarie, come mangiare i cappelletti a Natale dalla nonna dopo mesi di pasta Barilla o ristoranti pretenziosi, come vedersi Claudia Cardinale in un film cinemascope anni settanta dai colori acquerellosi dopo gli infiniti ammiccamenti di bombatissime gnocche moderne del cinema attuale/virtuale.

“Leave a Scar” (che significa sfregio, cicatrice) sta lasciando tutt’altro che un brutto segno nell’asfittico panorama rock attuale, anzi l’opposto. Trattasi di un cofanetto pubblicato l’anno scorso e contenente due cd audio ed un dvd video immortalanti un concerto del gruppo in North Carolina; come talvolta succede in queste pubblicazioni miste audio/video, la scaletta nel dvd è leggermente decurtata rispetto al più completo ed esteso contenuto del cd.

Com’è tradizione per le produzioni di rock sudista squisitamente made in USA c’è uno stridente contrasto fra l’ingenuità, l’obsolescenza, pure la tamarraggine dell’involucro tardo psichedelico nonché nell’aspetto hippy dei musicisti, il tutto parametrato con l’assoluta classe, attenzione, bravura, sensibilità e moderna precisione della musica che sgorga dalla loro ispirazione. Questi cinque georgiani si presentano sul palco circondati di drappi e tappeti, zompettando quietamente qui e là ed agitando però a modo le loro teste ornate da capigliature e barbacce degne di Woodstock; il batterista sembra Barbablù mentre che pesta tranquillo, panza in avanti e spalle all’indietro, in uno stile che più rilassato e sicuro non potrebbe essere e infatti il suono risulta forte, maschio, perfetto… e sa di legno, pelle e ferro, come il suono di una batteria deve sapere. Il tastierista tiene sempre una mano sull’Hammond e l’altra sul pianoforte, una volta elettrico l’altra acustico, facendo quello che c’è da fare per togliere la musica dalle rigidità hard rock ed instradarla verso sensibilità più colorate, dandole sfumature jazz, blues, pop, rhythm & blues, rock’n’roll. Ogni volta che allunga le mani fa qualcosa di scolastico magari, però di appropriato, soprattutto di gustoso e dinamico.

Il massimo è comunque il frontman Charlie Starr: canta con una voce forte e sincera e nel frattempo carezza letteralmente la chitarra che gli ciondola sotto la vita, con naturalezza e tocco disarmanti. Suona sobrio e semplice, ma ogni nota che fa è presa con una consapevolezza, un controllo ritmico ed armonico ammirevoli. Potrebbe fare qualsiasi cosa, a qualsiasi velocità, invece fa l’utile, il necessario e l’indispensabile rendendo così importante qualsiasi passaggio del suo strumento. E’ straniante gustarsi in simbiosi il suo aspetto freak d’altri tempi, con la zazzera esagerata e le orrende basette fatte crescere fino alla base del collo, in contemporanea alle sue mani che viaggiano sapienti su e giù per la tastiera senza mai aggredirla o sfidarla, accompagnandosi ad essa come se fosse di famiglia. Quando poi infila al mignolo il ditale di ferro per eseguire un po’ di slide è parimenti mirabile come riesca ad entrare ed uscire con naturalezza e garbo da quella tecnica, alternandola con nonchalance non ostentata alla tecnica normale, arrangiata con le tre dita rimanenti, il tutto con tocco intonazione ed espressività di fraseggio invidiabili, appaganti, vero cibo per l’anima.

L’album contiene venti brani audio e sedici di essi anche in video. A rappresentarli tutti scelgo la sublime “Ain’t Much Left Of Me”, la quale inizia swingante con gli strumenti appena sfiorati, sui cui umori Starr improvvisamente spalanca il volume della chitarra per introdurre il caratterizzante riffone in SOL “aperto”, sul quale si avventano poi tutti. Ed è una festa di derive country blues rollingstoniane (quando è in azione una chitarra accordata in SOL aperto è inevitabile avvertirci le lezioni del maestro Keith Richard, colui che l’ha introdotta nel rock). Con suprema sapidità e rotondità d’interazione fra i cinque strumentisti, quest’ennesima bellissima canzone vecchia come il rock eppur ancor piacente rotola felice alternando parti intense a frenate intimiste, finché dopo l’assolo arriva la variante live: invece di ripartire tutti per la terza ed ultima strofa, Barbablù introduce un groove pachidermico mezzo lento, che appena arrivano le chitarre si riconosce non esser altro che la tonitruante “When the Levee Breaks”, capolavoro di chiusura del quarto album degli Zeppelin. Starr la omaggia cantandone una strofa nel tripudio generale, poi i Blackberry Smoke riprendono e finiscono la canzone da par loro. Che spettacolo! Direbbe Valentino Rossi e lo dico anch’io: troppo giusti!

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