Se è mai esistita l'origine della scena house nel nostro paese allora è da attribuirsi per la maggiore a questo disco. Come ben sappiamo tutti (sopra tutto i detrattori di questo genere musicale fin troppo criticato senza motivo) una scena house italiana esiste eccome, tanto da essersi attribuita fin da subito una classificazione a parte rispetto al ben noto filone musicale nato a Chicago nei primi anni 80. "Dreamland" riesce a essere in un unico tempo un album profetico, rivoluzionario e ben costruito.
Se da un lato le sonorità "pop oriented" dei club nostrani stavano cominciando a stancare le folle dall'altro c'era una nuova dimensione sonora nota anche come "Chicago sound" che bussava alla frontiera, pronta a entrare nel paese e a fare un macello. La house cominciò a farsi sentire nella nostra nazione nel 1987 circa, proponendo classici "made in U.S.A." come "House nation" (la frase non l'ho iniziata a caso) di "House master boys & rude boys of house", "Move your body" del guru Marshall Jefferson, "Pump up the volume" dei MARRS, "Your love" di Jamie Principle e altri classici. Negli anni a seguire questo filone avrà sempre maggiore appeal tanto da modificare le classifiche di vendita e le playlist dei locali notturni. Ma ciò che mancava alla house in Italia era la consacrazione, che non avvenne fino a che un trio formato dal tastierista e "mago del sound" Mirko Limoni, il clarinettista e programmatore Valerio Semplici e il DJ Daniele Davoli (il Groove Groove Melody team) si riunì nel 1989 attorno a un tavolo dopo aver assoldato una cantante in gamba e dei musicisti di conservatorio (Sauro Malavasi e Roberto Fontalan alle chitarre, Raimond Violi al basso, Rudy Trevisi - che lavorò a suo tempo con quello che è considerato il padre della dance Italiana, il produttore Mauro Malavasi - al sax).
Ciò che venne fuori fu la terra tanto sognata da molti sulla quale si fondavano le basi della dimensione house Italiana. E le cose sarebbero cambiate davvero in fretta. Se, con buona pace del Raf di quell'anno, rimarrà molto ancora degli anni 80 dall'altra parte il mondo era pronto a entrare nel 2000 e a scrollarsi di dosso l'ormai antico pop e tutte le vecchie e inutili paccottiglie musicali del decennio appena trasorso, su tutte l'Italo disco, il New Romantic e la Disco music.
Il disco parte in quarta con "Everybody everybody" e prosegue la sua marcia di inizio con "I don't know anybody else" raggiungendo l'apice con "Open your eyes", song molto "Disco music style". La song 4 è una cover molto ben realizzata del classico degli Earth, Wind and Fire "Fantasy". Il primo atto si chiude con la traccia 5, brano non cantato in stile new age. Fin qui un disco dignitoso per la pista da ballo e sufficientemente brioso. Ma da questo punto in poi, grazie all'incontro con la song 6, la storia della musica (perlomeno italiana) non sarà più la stessa. Il brano in questione è la fondamentale "Ride on time", che scaglia in testa alle classifiche tutto l'album e sarà usata e condita in tutti i modi possibili dai DJ. Faccio notare che curiosamente la cantante della versione singolo non è la stessa della versione album, e c'è un motivo ben preciso.
Se c'è una cosa che ha fatto esplodere il fenomeno house (e sopra tutto Hip hop) era la questione dei "sample" musicali, detti anche "campionamenti". Perché questa tecnica, nata dai DJ di New York nei tardi anni 70 in piena febbre del sabato sera, sarebbe arrivata in tempi brevi grazie a un vettore efficace come lo hip hop a infettare (o ispirare?) una moltitudine di altri generi musicali, house music in primis. Così, quasi per caso, pezzetti di canzoni divenuti classici andavano a finire in mezzo a brani nuovi senza quasi fare rumore. E se ti trovavi ad ascoltare un disco di Eric B & Rakim che suonava tanto Bobby Byrd o un bel album di Ice Cube che suona come uno di Grandmaster Flash (che suona come uno degli Chic o dei Queen) e sapevi qualcosa riguardo a quello che ascoltavi era naturale che non ti sorprendevi. La tecnica del taglia-e-cuci musicale nel mondo del Hip hop era nota fin dal primo successo commerciale del genere (chi non ricorda "Rapper's delight" col giro di basso rubato dal tormentone "Good times" degli Chic?) e la house aveva imparato la lezione, facendo del campionamento una vera e propria dottrina. E questo cosa c'entra con "Ride on time"? C'entra eccome, visto che l'intera parte vocale del brano (e anche qualcos'altro) era stata campionata da un successo di Dan Hartman del 1978, il brano "Love sensation" (cantato da Loleatta Holloway), variando tra l'altro (sfruttando un difetto di pronuncia Americano) la frase del ritornello da "Right on time" a "Ride on time".
Nonostante il singolo impazzasse in Regno Unito, Germania, Francia e Italia il produttore Dan Hartman (morto tra l'altro per un tumore al cervello nel 1994) non esitò un secondo a citare in causa il team (e aveva anche ragione) per la sfacciata scopiazzatura. Il compromesso venne raggiunto poco dopo: il brano sarebbe stato riregistrato e riarrangiato per l'edizione album. Nonostante le controversie fu proprio "Ride on time" a lanciare (almeno all'inizio) l'album "Dreamland" nell'olimpo delle charts ed è anche la principale ragione che mi ha spinto ad acquistarlo e a preferirlo a "Il vuoto" di Franco Battiato (che comunque non mancherò di acquistare al prossimo giretto che mi faccio in centro città).
Il resto dell'album è costituito dalla funk-oriented "Hold on", da "Ghost Box" (un brano totalmente strumentale in stile smooth jazz, con un bel sax, utile a rompere la monotonia e proporre qualcosa di nuovo) e l'ultimo brano (una vera bomba), l'azzeccatissima "Strike it up", brano secondo solo a "Ride on time", che ha dettato legge in tutti i club Europei, ispirando quella che sarà la formula vincente dei non ancora nati Snap! (quelli di "Rhythm is a dancer" per intenderci) e incorporando, oltre a una parte in rap (trovata veramente furba) anche un campione dal successo di Gloria Gaynor "Reach out (I'll be there)" del 1976.
Alla fine cosa posso dire? Non si può giudicare (ovviamente) questo album per quanto riguarda la tecnica strumentale (è sempre e comunque un album house music, seppur fatto bene) ma bisogna farlo sicuramente sotto il fronte timbrico e anche sotto il profilo dell'impatto socio/costumistico che ha avuto nell'Italia di tangentopoli. E' sempre successo che in un periodo di crisi la gente si rifugi nella danza per evadere dalla realtà. Questo disco non ha solo il merito di avere fatto da colonna sonora per i primi anni novanta nei club ma anche di avere importato e fatto proprio un sound alieno come quello della house, coniugandolo nei caratteri musicali tipici del bel paese (melodia in funzione della ballabilità e della spensieratezza). Qualche anno più tardi arriverà la moda sofisticata della techno che spazzerà via tutto (di nuovo) ma i Black Box di "Dreamland" resteranno sempre nei cuori dei DJ e dei clubber dei primi anni novanta, che hanno visto in diretta il ritorno della disco music (mascherata da house) e degli anni 70 in tutto il mondo.
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