"No way. Blackfield is about sadness and loneliness". Cosi rispondeva Aviv Geffen, musicista e cantautore israeliano (popolare nel suo Paese come può esserlo Vasco Rossi da noi) ad un intervistatore che gli chiedeva se i Blackfield avrebbero mai pubblicato una canzone allegra. Ma andiamo per gradi, chi sono i Blackfield? Per chi non ha presente pensieri, parole, opere e omissioni di Steven Wilson, infaticabile porcospino con i tentacoli di un polpo, "Blackfield" è uno dei numerosi progetti paralleli che fanno capo al sopracitato leader dei Porcupine Tree, condiviso proprio con questo Aviv Geffen, sconosciuto (almeno fino al suo reclutamento nel gruppo) alla stragrande maggioranza dell'universo musicale occidentale semi-acculturato. Ciò che mi colpisce è la determinazione e la coerenza con la quale quest'ultimo sostiene il percorso artistico intrapreso con Wilson.
Lo scenario concettuale dei Blackfield è triste, come può esserlo guardare alla finestra un esile alberello che si arrende ai colpi del vento e perde le sue foglie in pieno autunno, o come l'immagine di un uomo che, lungo il suo lento e solitario cammino in un freddo pomeriggio d'inverno, scandisce i suoi passi dando qualche calcetto dimesso a una lattina. Soprattutto, è un parto della costante riflessione sull'impossibilità di riscattarsi dalle miserie alle quali l'essere umano è quotidianamente destinato sotto ogni punto di vista, sia esso politico, sociale o personale. A dire il vero, i testi non sono particolarmente ricercati, ma forse è proprio quel pizzico di ovvietà, quella sensazione di potersi sentire protagonisti di ogni canzone, di sentir condivise le nostre grigie, desolanti e scontate vicende in poco più di 3 minuti, a ricreare una sorta di imprescindibile, empatica partecipazione. E la musica, che ben poco ha a che fare con le complesse articolazioni prog alle quali ci ha abituato Steven Wilson, non è altro che un tappeto vellutato sul quale si adagiano raffinatissime, ma disarmanti nella loro semplicità, suggestioni pop, riconducibili all'eleganza melodica di Wilson, e all'intimismo cantautoriale di Geffen.
A dimostrazione di quanto prendano sul serio il progetto, nel 2007 registrano "Blackfield - Live In NYC", un dvd che sintetizza la breve (finora) carriera del duo, e che lungi dall'essere un inutile pseudo-greatest hits, merita di essere preso in considerazione per la resa dal vivo di molti brani che acquistano nuova linfa laddove in studio erano, talvolta, penalizzati da una produzione ovattata, quasi asettica. Ne guadagnano anche le armonie vocali, uno dei punti di forza della struttura musicale del gruppo, e l'interpretazione nel complesso, sicuramente più passionale rispetto al disco. Ad uscire, quindi, vincitrici dal confronto con gli album sono in particolare "Once", forse la più energica del lotto, la soave "1000 People", "Miss You", "Someday" e "Open Mind". Una spanna sopra le altre, anche le interpretazioni di "Blackfield", "The Hole In Me", "Epidemic", e un'emozionante cover piano e voce di "Thank You" (Alanis Morissette). Davvero poche le pecche; a voler essere proprio critici, in alcuni punti le prestazioni di Aviv Geffen (non certo un usignolo) sono tutt'altro che impeccabili, tuttavia a lui va riconosciuto il merito di aver scritto la maggioranza delle canzoni dei Blackfield (contrariamente a quanto si crede sulla rilevanza del contributo di Steven Wilson, molti brani erano già presenti negli album di Geffen in lingua ebraica).
Talvolta, non c'è medicina migliore della musica. Un "placebo" per l'esattezza, e i Blackfield sono quello che attualmente uso più di frequente. Quando mi sento un po' giù li ascolto e sto subito meglio; probabilmente la tristezza rimane, eppure in quel momento sono contento di sentirmi triste.
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