Dopo il riuscito "Shadow Of the Moon", l'uscita nel 1999 di "Under A Violet Moon" è la prova inconfutabile che il volenteroso duo formato da Ritchie Blackmore e (la sua compagna) Candice Night, vuole assumere la forma di un progetto concreto, il cui cammino artistico si divide equamente tra regolari pubblicazioni di dischi, relative tournèe di supporto ed annesse interviste su musical magazine di spessore.
L'intensa attività dal vivo svolta all'indomani dell'esordio discografico, ha sicuramente migliorato le già evidenti qualità vocali dell'angelica singer, così come ha fornito una maggiore coesione tra i numerosi musicisti coinvolti, guidando ad un ulteriore affinamento ed identificazione delle sonorità plasmate. Il dischetto che ho tra le mani propone una nutrita quantità di componimenti musicali, in cui a regnare è la semplicità e la purezza di uno stile, che riesce a prendere forma attraverso delle deliziose canzoni e brevi ed armoniosi intermezzi strumentali, che rifiniscono a dovere interamente il lavoro.
L'introduzione a questo baccanale è affidata alla gentile title-track, che si fà strada con la sei corde di Mr. Blackmore per tracciare un inappuntabile sentiero musicale, in cui una "inizialmente" amorosa esecuzione vocale, in seguito si ravviva giungendo gongolante ad un ritornello di facile presa. "Castles And Dreams" potrebbe essere il carillon per favorire il riposo di un neonato, mentre la combinazione delle note di "Avalon", non può non far volare con la mente ad una fredda serata d'inverno, trascorsa ascoltando storie e leggende di un tempo gioendo del benvoluto tepore che si diffonde da un ardente camino. Il riposante interludio di "Possum Goes To Prague" anticipa "Wind In The Willows", unica composizione a due voci dove John Ford (anche in veste di bass player) alterna - con la bella Candice -, una piacevole filastrocca popolare, in cui i due musicano una giornata trascorsa incontrando viaggiatori abituali nel countryside inglese di alcuni secoli addietro (So I asked them to tell me their name and their race So I could remember each smile on their face "Our names they mean nothing... they change throughout time So come sit beside us and share in our wine": Chiesi i loro nomi e che origine avessero in modo da ricordare tutti i loro sorrisi "I nostri nomi non dicono nulla, cambiano nel tempo, Sedete e bevete insieme a noi ").
Le basi questo disco sono rappresentate, sia da una peculiare ricerca di strofe amabili e al tempo stesso singolari, quanto di ritornelli in grado di rapire e sedurre l'ascoltatore stretto in questa piacevole morsa. L'uso di una strumentazione prevalentemente acustica, rende al meglio la "condizione essenziale" in cui i brani sono proposti, e l'accurato livello di laboriosità a cui hanno dovuto soggiacere, in modo da non risultare oltremodo scarni e privi di consistenza.
C'è posto anche per una gran bella cavalcata con "Spanish Nights (I Remember It Well)", dove percussioni dalla variabile timbrica arricchiscono il seducente duello tra il violino (suonato per l'occasione da Miri Ben-Ari) e la chitarra di Ritchie che riesce - pur in versione unplugged -, a sprigionare stile ed austera eleganza. Ma le tracce che potrebbero attecchire ai vertici di una augurabile "Top Ten di musica medievale", sono sicuramente la rilettura del traditional "Gone With The Wind" e "Morning Star". La prima annunciata da degli inquieti zoccoli di cavallo, trova nell'introduzione con tromba e flicorno la giusta partenza per un brano che vede nella combinazione tra le straordinarie melodie, - create dalla voce di Candice - e il perfetto incedere strumentale di gruppo, la chiave della riuscita di una song in cui è possibile emozionarsi ancora sentendo un solo elettrico del blasonato leader. La seconda invece, ha nel violino lo strumento portante, che accompagnato da un brioso tamburello, si muove tra influenze di discendenza potrebbe ancora parlare, della sicura riuscita di un brano capace di ottenere un notevole coinvolgimento collettivo nei live-shows come "Past Time With Good Company", o del positivo ripescaggio dai Rainbow Dio-era di "Self Portrait". Vista l'innegabile omogeneità tra il materiale presente sul disco, ritengo poco proficuo per chi legge dilungarmi ulteriormente sulla rappresentazione degli altri brani, così da invitare i papabili ascoltatori interessati, a scoprirli da soli.
Un buon disco dotato di un fascino garbato, a cui consiglio vivamente di prestare attenzione, in cui nonostante l'evidente familiarità tra il titolo ed il nome della prima illustre band del Man In Black, di "amabilmente violaceo" non scorgerete proprio nulla, se non il commovente e nascosto (visto che anche il booklet non riporta alcuna dedica in proposito!!) riconoscimento da parte di Sir Ritchie Blackmore alla propria figura materna a cui è sempre stato fortemente legato, che aveva proprio l'incantevole nome di... Violet Moon.
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