Recensione ideata e impostata da De…Marga…
Siamo sul finire di Settembre dell'anno 1997 quando una nuova creatura musicale fa il proprio esordio discografico. Blackstar è il semplice, ed in qualche modo inquietante, nome scelto dai quattro ragazzi che formano questa lineup inglese. Un nuovo progetto, realizzato però da vecchie e preparate conoscenze, persone che tuttora occupano un posto d’onore nella storica cronologia della musica pesante.
Barbed Wire Soul, affonda le proprie radici nel 1996, quando i Carcass pubblicano Swansong, vero e proprio canto del cigno degl’inglesi, che da lì a pochissimi mesi, metteranno la parola fine alla prima parte della loro enorme carriera. L’ultimo disco della band rappresenta un’ulteriore trasformazione, un ulteriore inaspettato cambio di rotta: scelgono di abbandonare quasi del tutto il death metal, andando a riscrivere completamente il loro approccio musicale, che diventa in tutto e per tutto hard’n’heavy.
Da questa virata hard – che guarda il passato, ed in particolare gli anni settanta – vengono plasmati i Blackstar di Jeff Walker, Ken Owen, e Carlo Regadas, già membri appunto dell’ultima incarnazione “Carcassiana”. Purtroppo Bill Steer preferisce salutare la compagnia (rimanendo comunque in ottimi rapporti con gli ex colleghi) per formare i Firebird, immersi anche loro in sonorità hard rock di “settantiana” memoria. Al suo posto si decide d’ingaggiare un altro mostro sacro della sei corde, quel Mark Griffiths già bassista nei primi lavori dei Cathedral.
Una stella nera infuocata è l'elemento portante della copertina: un simbolo fin troppo chiaro per definire i connotati dell’impasto sonoro che va a comporre le undici tracce del disco. Una sequenza di brani incendiari, che si poggiano sui sinuosi riff di chitarra di Carlo, ben assecondato dal meno appariscente ma altrettanto vigoroso lavoro di Mark. E proprio al suono dei Cathedral, quelli appunto più heavy di dischi come The Ethereal Mirror, che rimanda tutto l'album dei Blackstar. Per l’occasione, Walker pulisce parzialmente il suo timbro vocale – passando dal growl alle raw vocals – mentre Owen dimentica completamente l’isteria tombale e macellante di Reek of Putrefaction o Symphonies of Sickness, e decide d’interpretare l’album battendo ritmi divisi tra il mid e l’up tempo, entrando in una mentalità sonora più hard rockettara. Ecco perché, nonostante il passato estremo dei musicisti, i Blackstar si rendono più accessibili e melodici.
Chi riuscirebbe, in effetti, a resistere allo scoppiettante heavy’n’roll di New Song, o all’aggressiva e ruvida Sound of Silence (strepitosi i guitar solo), o ancora all’infuocato hard’n’heavy di Smile che per voce e musica palesemente ricorda i lavori più classic metal della “Cattedrale”. Tocca invece a Rock’n’Roll Circus e Waste of Space, il compito di hit del disco: ci riescono ottimamente alternando potenti tempi medi ad incandescenti cavalcate, beatamente contaminate da inserti di sax e tastiera (magistralmente prodotti da Colin Richardson). Degno di menzione anche l’anthem Revolution of the Heart, che ricalca probabilmente l’ideologia sociale e politica di Walker.
In conclusione un disco compatto, aggressivo, ruvido e scorrevole che ci mostra una band in cerca di rinascita, o meglio di una nuova cruda realtà sulla quale sbizzarrirsi musicalmente. E bisogna assolutamente ammettere che questo passaggio dal macello all’inferno è riuscito appieno. Certo, commercialmente parlando, Barbed Wire Soul resta un prodotto minore rispetto al materiale proposto dalle band di provenienza dei musicisti in questione; ma si tratta pur sempre di un lavoro atto a coinvolgere una cerchia più ampia di persone, ossia ogni rispettabile amante del rock, inteso nella sua forma più brada e monolitica. Quattro stelle abbondanti!
De…Marga…& Dragonstar
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