Ecco un altro di quei gruppi che non hanno inventato assolutamente niente, ma che di cose da dire ne avevano parecchie.
Quando il rock era anche contenuto, espressione, comunicazione (e non solo meccanica riproduzione di forme musicali consolidate), molti giovani lo utilizzavano come mezzo per trasmettere le proprie preoccupazioni, come valvola di sfogo, come blog in cui immettere e attraverso cui condividere il proprio malessere. A Boston, poi, sul finire degli anni 80 nacque un vero e proprio filone, quando dai college emerse tutta una serie di fondamentali gruppi dediti ad un rock dalle tinte sentimentali: Lemonheads, Dinosaur Jr, Pixies (spesso accorati, nonostante l'apparente estroversione), Blake Babies.
Nel primo LP di questi ultimi, "Earwig" (1989), la giovane Juliana Hatfield si confida a cuore aperto, come una Joni Mitchell adolescente, in lineari canzoni folk-rock che in realtà sono acquarelli, atmosfere, stati d'animo. Virato sull'azzurro, ovattato, umile, liquido, impalpabile, discreto, involuto: così è l'accompagnamento strumentale di John Strohm, Freda Love e Evan Dando (altro straordinario interprete del lirismo in musica). Il folk-rock più intimista degli anni 80, dove il proverbiale jingle-jangle affoga nel languore di arpeggi che paiono avere una funzione terapeutica.
"Cesspool", in apertura, sfrutta il lessico dei REM, ma con più carica emotiva. Tra strumenti talora lasciati a se stessi, fluttuanti nel vuoto, pause di riflessione, ripensamenti a testa bassa e sguardi nuovamente rivolti verso il cielo, Juliana sfoggia il suo timbro pulito, cristallino, fragile, eppure capace di sobbarcarsi il peso della vita. Il capolavoro del disco è forse "You Don't Give Up", confessione amara, mesta, come un pomeriggio passato a guardare fuori dalla finestra della cameretta, tra mille pensieri che affollano la mente; gli strumenti (voce compresa) si girano intorno, si guardano di striscio, si incantano, si incupiscono, ritornano al punto di partenza. Siamo dalle parti della Joni Mitchell più ispirata, con la differenza che nei Blake Babies c'è sempre uno spiraglio per il riscatto: è qui che si avverte la differenza tra una band di ventenni e una cantautrice adulta.
Il tono abbacchiato di brani come quest'ultimo si fa da parte quando Juliana riprende coraggio e ritrova la grinta di una Hope Nicholls nel power-country "Your Way Or The Highway" o quando, in "Rain", le lacrime le si prosciugano sul viso e può finalmente tornare a sorridere o, ancora, in "Lament", dove prova a lasciarsi alle spalle il magone e ritrova la serenità, almeno provvisoriamente. L'hardcore è lontano (ecceziona fatta per "Not Just A Wish", buffa e impacciata sfuriata conclusiva), ma la necessità di rinfacciare al mondo le sue perverse regole è rimasta; lo sconforto della Hatfield non è campato per aria e il bersaglio preferito è l'universo maschile: il lapidario ultimatum "Take Your Head Off My Shoulder" trasuda rivalsa nei confronti dell'ambiguità e dell'ipocrisia dei presunti amici.
Naturalmente, alle spalle di Juliana c'è un'approfondita conoscenza della storia del rock. Se "Dead And Gone" pare un omaggio ai Big Star, nell'improbabile cover di "Loose" la ragazzina timida e introversa si improvvisa voluttuosa rock star, con risultati paradossali: Juliana Hatfield, mai così goffa, mai così tenera, mai così fuori luogo, è riuscita nell'impresa di spogliare gli Stooges di ogni carica erotica!
L'ultima parte del disco è quella più tranquilla, quasi riconciliata. In "Don't Suck My Breath", storia di ordinaria frustrazione, nella pacatezza di "Outta My Head", nella rassegnazione di "Steamy Gregg", in cui Juliana vagheggia con la mente sgombra da traumi, si completa il ritratto di una ragazza come tante, in cerca di un riparo dalla bufera esistenziale.
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