Da un po' di tempo a questa parte gli anni '80, che sembravano destinati alla damnatio memoriae dopo il diktat Nirvana-Rock-Alternative imposto da MTV tempo addietro sono tornati sulla bocca di tutti: vuoi per assoluta carenza di idee, vuoi perchè quel famigerato decennio ha offerto molti spunti nefandi da cui il peggio del mainstream contemporaneo (pop/rock trasversalmente, le differenze sono esclusivamente formali) può liberamente attingere e riciclare a piacimento. Quante volte si è sentito dire cose del tipo "la popstar X piuttosto che Y con questo nuovo disco ritorna alla dance tipica degli anni '80", "Questa rockband emergente propone un sound tipicamente 80's" o affermazioni similari; poi così tra capo e collo ti ripiombano in heavy rotation i Duran Duran, più molesti e fastidiosi che mai, e si capisce come il buon (?) Danny The Kid, che quella decade l'ha vissuta solo per otto mesi e mezzo nel grembo materno possa essersi fatto un'idea distorta e quantomeno parziale di quel periodo, che per il pop è stato assai più felice e fecondo di questo sterile terzo millennio dominato da mode passeggere che si susseguono ciclicamente ogni due anni e che tutti o quasi seguono da bravi caproni quali sono (Timbaland, David Guetta, adesso Skrillex, avanti il prossimo...)
Superato il gongolamento per essere finalmente riuscito a citare Skrillex in una mia recensione (aho, so' soddisfazioni!) torniamo a noi e soprattutto passiamo alle cose serie: in questa ondata di revival pacchiano ha fatto la sua ricomparsa, tra l'indifferenza generale, un duo che negli anni '80 ha saputo scrivere la propria storia con classe e dignità. Una realtà onesta, nulla di geniale e trascendantale ma che ha prodotto un synth-pop raffinato e piacevole, puntando più sulla musica che sul trucco e l'immagine: sto parlando dei Blancmange da Harrow (UK), ovvero il cantante Neil Arthur e il beatmaker/polistrumentista Nick Luscombe, una meteora che su tre album ne ha azzeccati due, il debutto "Happy Families" in particolare e "Believe You Me" del 1985, ricchi di gusto, stile, intelligenza e creatività, come testimoniato da belle canzoni tra cui spiccano "Living On The Ceiling", "Waves", "God's Kitchen", "What's Your Problem?" e "Paradise Is" per citare le più riuscite, a cui vanno aggiunte la famosa hit "Lose Your Love" e una pregevolissima cover degli ABBA, "The Day Before You Came", presente sul secondo album "Mange Tout" del 1984, di gran lunga il meno interessante del duo.
Ma ecco che, dopo la bellezza di ventisei anni da "Believe You Me" i Blancmange si ripresentano sulla scena, con una copertina coloratissima nel loro stile più autentico, senza ruffiani tentativi di ammodernamento, come per dire "siamo sempre noi", ma non è del tutto vero: loro sono cambiati, si, ma solo dove conta veramente. È un azzardo, un'incognita, un salto nel vuoto, ma l'esito finale è semplicemente superbo, la dimostrazione di come a volte le reunion servano davvero a qualcosa, la dimostrazione di come sia possibile piazzare il proprio personale capolavoro dopo più di un quarto di secolo di latitanza. Si, perchè "Blanc Burn" questo è, lo dico chiaro e tondo, siamo in presenza di un album veramente sopraffino, affascinante ed intrigante pop elettronico, arrangiamenti sobri, quasi minimali ma tantissima sostanza, tantissima carne al fuoco, ispirazione alle stelle, classe cristallina. Perfette gemme pop come "By The Bus Stop @ Woolies" e "I'm Having A Coffee" presentano ritmi ovattati ed eleganti, quasi futuribili nella loro semplicità su cui si snodano deliziose cantilene pop splendidamente interpretate da un Neil Arthur piacevolmente ipnotico con il suo stile semi-parlato, in "Probably Nothing" rivive una new-wave leggera, ballabile e priva di orpelli inutili, solo voce, ritmo ed una melodia sorniona ed intrigante, uno stile a cui si rifanno anche "The Western", che con la sua atmosfera mediorientale si propone come la "Living On The Ceiling" del terzo millennio e "WDYF", con un mood leggermente acido e tenebroso.
"Blanc Burn" è un album compatto e strutturato alla perfezione, fila dall'inizio alla fine come un unico discorso musicale unitario e senza corpi estranei, riempitivi e cadute di stile, ma questo non vuol dire che manchi di eclettismo, creatività e picchi emotivi: un potenziale singolone spaccaclassifiche come "Drive Me" è una di quelle canzoni che entrano subito in circolo stuzzicando il sistema limbico, la ballad semiacustica "Radio Therapy" riesce a spezzare i ritmi ipnotici del resto dell'album proponendo sonorità più dilatate e rilassanti senza per questo risultare soporifera, una dote non comune per un pezzo del genere, "Don't Forget Your Teeth" è una sincopata ed ironica marcetta al rallentatore con risvolti psichedelici deliziosamente straniante, senza dimenticare l'atmosfera quasi da sci-fi di una sarcastica "Starfucker" e soprattutto la stupenda "Ultraviolent", forse il punto più alto dell'album a livello emotivo, che nonostante sonorità quasi robotiche propone il testo più umano ed impegnato di "Blanc Burn" grazie anche all'interpretazione perfetta e straordinaria di Neil Arthur.
Un album del genere al giorno d'oggi è veramente qualcosa di più unico che raro, nell'ambito di un pop mainstream standardizzato e più insipido di una patata cruda "Blanc Burn" rende onore alla sua copertina un qualcosa di non nuovo a tutti i costi ma sicuramente alternativo e sincero, genuino come frutta fresca. Se un disco del genere l'avessero fatto gli Hurts, la new sensation del revival ultrapatinato, con tutto l'hype che ne consegue, non si conterebbero santoni e guru massmediatici intenti a stracciarsi le vesti gridando al capolavoro e starlette più o meno recenti a fare a pugni per collaborare con loro, ma, forse per fortuna, così non è. Non resta che sperare che questa seconda giovinezza dei Blancmange (già solo per questo album nettamente migliore della pur buona prima) non sia una reunion sporadica come ad esempio quella dei Soft Cell nel 2002, perchè Neil Arthur e Nick Luscombe hanno ancora molto da dire e da dare al pop, e dopo quasi trent'anni di oblio è ora di recuperare il tempo perso.
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