Per chi sentisse la mancanza dei Blood Axis ed avesse necessità di abbeverarsi alla fonte ingenerosa di Michael Moynihan (padre del solo immenso Gospel e di poche, e parziali, altre apparizioni chiamate a placare l'arsura di una sete insaziabile), consiglio di assaporare questo "Absinthe - La Folie Verte" del 2001, strana operazione scaturita dalla collaborazione dell'Asse con Les Joyaux de la Princesse, industrial act francese attivo fin dal 1986 e gravitante attorno alla figura di Erik Konofal (da segnalare "Ostenbraun", del 1989: la succulenta collaborazione con i Death in June).

"Absinthe - La Folie Verte" (altresì detto: "Absinthe - The Green Madness"), nei suoi surreali toni noir-cabarettistici, rievoca i contorni indefiniti di una tetra e fumosa Parigi di fine ottocento/inizio novecento: le sue vie buie, i suoi fetidi sobborghi, mondi brulicanti di esistenze derelitte ed abbandonate dalla grazie di Dio. Ma gli scenari ricreati tratteggiano in realtà una città mentale che potrebbe essere benissimo la Pietroburgo di Raskolnikov o la Londra di Jack lo Squartatore: una città ideale, putrida, invisibile, specchio dell'anima; una notte ricreata dai fumi dell'alcool, dalle pene, dalle preoccupazioni e dalle inquietudini esistenziali che infestano il percorso artistico ed umano di Moynihan.

Già udir la sua vociaccia, appena premuto il tasto play, fa una certa impressione, tanto rare sono le sue incursioni nel mondo discografico: sul carisma vocale del fosco cantante (lanciato per lo più in terribili recitati) e sulle sfocate spennellate industriali di Konofal (sotto l'attenta supervisione di Robert Ferbrache) si basa l'apprezzabilità di un lavoro che intende illustrare le qualità prodigiose dell'assenzio (l'impalcatura oratoria architettata da Moynihan si basa su brani di autori francesi più o meno noti, tutti dedicati alla bevanda qui celebrata): un lavoro fumoso, visionario, onirico, surreale, minaccioso, esotericamente alcolico, spregiudicatamente elitario.

Il violino sinuoso e serpeggiante della geniale Annabel Lee completa un quadro di devastazione sonica, dove una derelitta psichedelia ambientale si fonde ad un inconsistente sostrato sinfonico, come accadeva nel monumentale Gospel (paradigmatica risulta essere "Between Birds of Prey", passaggio fondamentale del capolavoro dell'Asse e sull'impronta della quale si evolve l'intero lavoro).

Anche se poi, a ben vedere, il cammino ha origine da ben più lontano: dalla disgregazione psichica e dai drammi esistenziali palesati nell'estenuante "Wall of Sacrifice" dei sempre imprescindibili Death in June; o dall'effervescente irriverenza di "Music, Martinis and Misantrophy" uscito a nome Boyd Rice & Friends (dove fra l'altro avevano contribuito gli stessi Moynihan e Ferbrache).

E proprio nel lavoro appena citato (là vi era il Martini, qua l'assenzio) vanno riscontrate le maggiori analogie, soprattutto a livello tematico, oltre che stilistico.

Innegabile infine, per quanto riguarda il linguaggio adottato, la lezione dei NoN: medesime sono le spaventevoli orchestrazioni, spezzate e ripetute in temibili loop che non sembrano avere fine; medesime le costruzioni sonore che vedono la spietata sovrapposizione di nastri sfrigolanti e marciti nel corso del tempo; medesime le ambientazioni claustrofobiche rese dall'impietosa fusione di elementi contrastanti (altra arma micidiale da sempre caratteristica fondante della produzione artistica dell'Asse), generanti paesaggi devastati e rovinosi.

"La Follia Verde" è un unico, confuso, sensuale viaggio, dove i brani sfumano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità: fra una citazione (riconoscibile, per l'orecchio attento, la riproposizione del tema della celeberrima "Reign I Forever" in "Variations sur le Thème de Corelli"), ed un assalto all'arma bianca (da brividi il crescendo noise della mastodontica "Princesse Verte"), i 52 minuti che caratterizzano l'opera si riversano sulle nostre orecchie alla stregua di un impasto denso ed appiccicoso da cui sarà difficile liberararsi. Una perversa elettronica ambientale si combina con incalzanti partiture neoclassiche, meste orchestre scordate (degna colonna sonora dell'apocalisse in atto) e con il gorgheggiare solenne di tenori e soprani, generando un clima di terrore onirico che vorrebbe ricreare le visioni e le allucinazioni date dall'(ab)uso dell'assenzio. E proprio tramite la "follia verde" viene compiuta l'ennesima fuga dall'umanità raccontataci dalla voce greve di Moynihan, cantore di un processo mentale che ha del nietzcheano nel rappresentare metaforicamente la pratica dell'elevazione dell'Io, al di là di ogni principio morale, etico, religioso, sociale.

Fuor di metafora, questo album è un vero calcio nei coglioni: la misantropia di Moynihan trova qui la sua piena sublimazione, in un lavoro che si presta all'orecchio come l'apoteosi dell'Estremo, l'affermazione assoluta del primato dell'Irrazionale e di una concezione dell'arte fondata sull'intransigenza e sull'assenza totale di compromessi.  

Buona sbornia a tutti!

Carico i commenti...  con calma