Qualche singolo sparso nel nulla, saltuarie collaborazioni, il monumentale "The Gospel of Inhumanity": a questo si limita la discografia ufficiale dei Blood Axis, prolifici quanto un panda sull'orlo dell'estinzione, ma fondamentali come pochi altri nell'evoluzione stilistica di quella zona grigia che sosta irrequieta fra truce tradizione industriale e folk apocalittico.
Ogni volta che infatti l'orma di Michael Moynihan viene lasciata su questa terra, il solco è profondo, profondissimo. Il live "Blót: Sacrifice in Sweden" (pubblicato nel 1998) non fa eccezione: l'album in questione è un capolavoro, almeno quanto lo era stato l'epocale Gospel, unico full-lenght ad oggi licenziato dalla band.
Anzitutto i Blood Axis non sono più un duo: ad affiancare Moynihan (voce e percussioni) e Robert Ferbrache (chitarre e tastiere), troviamo la compagna di Moynihan stesso Annabel Lee, sublime violinista, che non poco influirà sulle sorti musicali della band.
Registrato nel 1997 in occasione del decimo anniversario della nascita della mitica etichetta svedese Cold Meat Industry, e sotto lo sguardo attento del maestro Albin Julius (Der Blutharsch), qui in veste di tecnico dei suoni (ottimi!), "Blót" è un'opera monumentale (e come poteva essere altrimenti?), dove la storia del combo americano viene ripercorsa, riletta e re-inventata: un'opera compatta concettualmente, intelligentemente congegnata, ottimamente confezionata.
Nella prima parte del set convivono brani inediti, classici della primissima ora e una sedicente cover.
Un organo liturgico accompagna il farfugliare della voce registrata di Moynihan: incalza l'eroica "Sarabande Oratoria". E con essa ritroviamo i Blood Axis esattamente dove li avevamo lasciati: maestri degli accostamenti più azzardati, in perfetto equilibrio fra sacro e profano, i Blood Axis ergono il consueto monumento di epicità, tensione e solennità che solo loro sono in grado di allestire.
Irrompe l'organo della mitologica "Heriafather", la voce di Moynihan si perde fra i cori rarefatti di un'invocazione misterica che sarà destinata ad aprire i concerti negli anni a seguire. Come nel Gospel, anche in "Blót" non si mostra alcuna fretta, il niente sussegue al niente in una tragica sospensione, in attesa dello squarcio sanguinario provocato dall'accetta che viene a falciarci il viso.
Con il terzo brano si rompono finalmente gli indugi: compaiono una chitarra acustica ed le nenie sognanti del violino della Lee: i Blood Axis cambiano definitivamente veste, abbracciano in toto gli stilemi classici del neo-folk. Ma chi mastica folk apocalittico non rimarrà indifferente: si tratta della rivisitazione di "Seeker", perla ripescata direttamente dal repertorio dei Fire + Ice dell'amico Ian Read. Il truce gorgogliare della voce baritonale di Moynihan si libra finalmente nell'aria, penetrando perfettamente nelle oscure trame di una composizione che originariamente era stato appannaggio del canto sgraziato di quella folle sacerdotessa delle Rune che risponde al nome di Freya Aswynn. Il tutto, beninteso, è da lacrime.
Con il quarto brano si fa un salto brusco nel passato più remoto della band: si va a ripescare uno dei primissimi singoli mai pubblicati, quell'"Electricity" incubo industriale che ancora fa tremare le ossa al suo passaggio, come vento polare sulla pelle di un neonato, come ferro incandescente che marchia la carne a fuoco. Quanto hanno da imparare i Blutharsch!
"Lord of Ages" (altro classico della primissima ora) e "The March of Brian Boru" (riproposizione di un brano folk della tradizione irlandese) concludono la prima parte del set all'insegna di assalti percussivi e sonorità acustiche che stemperano le atrocità industriali tipiche della band, in favore di una attitudine folk-popolare che allinea i Blood Axis ai canoni dei colleghi britannici.
Un breve interludio infestato dal sibilare del vento e dall'ululare angosciante dei lupi conduce alla seconda porzione della registrazione, dove si andrà a ripercorre nei suoi tratti salienti il Gospel, religiosamente riproposto quasi per intero.
Si fa strada la voce megafonata di un certo dittatorello delle nostre parti, intento a sgolarsi in uno dei suoi discorsi più celebri: la minacciosa overture "The Gospel of Inhumanity" cresce nel sottofondo, l'intensità è alle stelle, grazie soprattutto all'incalzare del violino della Lee che si fonde alle trame sinfoniche del brano: forse mai nessuno era arrivato così lontano, i Blood Axis spingono l'estetica dello sgradevole ad un livello ulteriore di recrudescenza; ma, a prescindere della bandiera a cui si appartiene, è difficile rimanere indifferenti innanzi all'ennesima invenzione perversa architettata dal Moynihan e compagni.
Si susseguono brani del calibro di "Eternal Soul", "Between Birds of Prey", e l'immancabile "Reign I Forever", scossa dalla pioggia e dai tuoni, probabilmente l'apice artistico dell'Asse (sarà merito di Prokofiev, sarà merito di chi cazzo vi pare, ma l'estasi panica che questo brano è in grado di procurare all'ascoltatore trova difficilmente dei paragoni nella storia della musica popolare). Dal vivo, paradossalmente, i suoni emergono più nitidi che su album: le chitarre acquisiscono corposità, perdono da un lato il fascino putrido delle sonorità post-punk di cui erano rivestite in origine, guadagnano dall'altro potenza metallica, a dimostrazione che i Blood Axis non scherzano nemmeno dal vivo.
C'è tempo per un'altra cover, la sublime "The Hangman and the Papist" (David Cousins, 1971), un'intensa ballata che ci porta direttamente dalle parti del Nick Cave più crepuscolare (un Nick Cave, però, incalzato dai tamburi, con la svastica tatuata in fronte ed un manganello ficcato su per il culo!). Il flusso del Gospel, interretto dalla visionaria parentesi cantautoriale, viene poi ripreso dalla burrascosa "Storm of Steel", i cui dieci minuti hanno il compito di chiudere le danze, proprio come succedeva nel Gospel.
Fra lo sferragliare di una chitarra elettrica in fase di deterioramento ed oscuri cori da messa nera (mentre il pubblico risulta pressoché inesistente per tutto il corso della performance, probabilmente ritoccata alla grande in studio), si conclude quella che possiamo definire l'ultima significativa testimonianza (ad oggi!, si spera) di una leggenda immortale che, nonostante i lunghi silenzi, le estenuanti attese, il niente che separa il niente, continua a sopravvivere nell'oscurità, come un fuoco capace di divampare improvvisamente da una brace sonnecchiante quanto ardente.
La classe non è acqua: la classe è sangue!
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