"Out of Fate's dark well, flows the flicket lot

Today you stand fast and tall, tomorrow you'll totter upon the wave”

Ci sono voluti quattordici anni, quattordici fottuti anni per stringere nelle proprie mani il successore del monumentale "Gospel", fino a ieri l'unica opera licenziata dai Blood Axis nella loro parca carriera. Ascoltando tuttavia l'agognata ultima fatica discografica del seminale industrial act americano, si può certo affermare che ne è valsa davvero la pena ad aspettare tutto questo tempo!

Potremmo dire quello che ci pare, ma il 2010 è senz'altro un anno significativo, in quanto testimone di grandi ritorni, e mi vengono in mente le recenti uscite discografiche di Burzum (quattordici anni di attesa) e di Anathema (solo sette, ma interminabili anch'essi). E se per la band capitanata dai fratelli Cavanagh il ritorno è un semplice attestato di esistenza (“We're Here Because We're Here”), per il buon Vikernes e l'altrettanto buon Moynihan il discorso assume i connotati di una vera e propria resurrezione. Più di un'analogia è infatti riscontrabile fra il concept che sta alla base di “Belus” (la lotta per la rinascita del dio Belus attraverso il mondo delle Tenebre) e il qui presente “Born Again”, imperniato sui temi del tempo, del suo trascorrere, delle trasformazioni che in esso intervengono. Sul vivere e morire e rinascere delle cose. In altre parole sul concetto di metamorfosi.

Ma laddove per Burzum la resurrezione passa per la riesumazione del sound glorioso che fu (una riappropriazione dell'identità e soprattutto della libertà perdute), per l'entità Blood Axis il riaffacciarsi sul nuovo millennio rappresenta una radicale svolta stilistica, in cui vengono prese le distanze da quelle che furono le movenze di un'opera epocale quale fu il "Gospel" (un'identità che tuttavia rimane forte, nonostante i mutamenti intervenuti): i Blood Axis non sono più fautori dell'industrial più truce che ci possiamo immaginare, ma decidono di ammorbidire i propri suoni e di abbracciare gli stilemi del folk più arcaico ed evocativo.

Una metamorfosi che, in verità, era ampiamente intuibile già dai semi di novità gettati nel fantasmagorico live “Blòt: Sacrifice in Sweden”, e, più in generale, dalle novità che comportò l'ingresso in pianta stabile nella formazione di quella “candida” fanciulla, compagna dello stesso Moynihan, che risponde al nome Annabel Lee. Un'intuizione rafforzata poi dalla natura delle svariate collaborazioni consumate in tutti questi anni, che hanno visto i nostri tre prodi rinforzare le fila di formazioni più tipicamente folkettare come Fire + Ice, In Gowan Ring, The Lindbergh Baby ecc.

Un cambiamento che già ebbi modo di saggiare dal vivo nell'anno 2005 in quel di Firenze, in cui mi ritrovai a veder salire sul palco un Moynihan non più in uniforme, in veste di folle predicatore, bensì con le sembianze di un ruvido e lercio barbuto lungo-crinito in camicia bianca e gilet, che quasi sembrava uscire fuori da un romanzo di Faulkner. Il concerto, per la cronaca, fu di per sé una rottura tremenda, fra infinite e languide escursioni folcloristiche e saluti romani, ma anche questo non bastò ad inficiare la devozione per una band che nel bene o nel male aveva contribuito a rivoluzionare il panorama della musica industriale.

E così la metamorfosi si è compiuta, anticipata dagli stessi versi in latino non a caso selezionati dalla “Metamorphoses” di Ovidio; una metamorfosi che prende vita e forma definitiva in ben dodici pezzi (comprensivi di un intro, un outro ed un breve intermezzo per 61 minuti di durata complessiva), ed in particolare con i toni festanti e baccanali della terremotante opener “Song of the Comrade”. Il folk dei rinati Blood Axis si ancora così al filone di nomi tutelari del genere quali Sol Invictus e Fire + Ice, ma rinuncia infine alle atmosfere più tipicamente “apocalittiche” per abbracciare in toto le movenze di un folk più tradizionale, che affonda le radici direttamente nella tradizione celtica, nel folk irlandese (!), nel folk scozzese (!!), nel country-folk americano (!!!). Un folk fiero, impavido, epico, ottimamente orchestrato, che non sa fare a meno di una robusta base ritmica e degli interventi sbarazzini di una chitarra elettrica; un folk allestito con convinzione e professionalità grazie anche al contributo di una folta schiera di musicisti pescati chissà dove durante gli ultimi cinque anni di inquieto peregrinare di Moynihan e compagna lungo le lande del Portogallo, dell'Austria e del natio Colorado.

Ovvio che il trio rimane compatto, e che la musica dell'Asse rimane fondamentalmente l'incontro delle tre personalità fondanti del progetto, ossia l'immancabile Michael Moynihan (voce e percussioni), il fido Robert Ferbrache (chitarra e tastiere) e la provvidenziale Annabel Lee (violino, fisarmonica, pianoforte e voce). Un'opera che, più che da un punto di vista prettamente musicale (perché diciamola tutta: a me il folk irlandese fa alquanto cagare!), riluce piuttosto dell'enorme lavoro di Moynihan nell'attività di ricerca, riscoperta, traduzione, adattamento ed interpretazione di testi dalle provenienze più disparate (ma coerenti con la visione del mondo dell'autore), cantati in latino, in inglese arcaico e moderno, in tedesco e perfino in sanscrito vedico (la lingua degli antichi scritti indù ritenuti fra i più datati nella storia dell'umanità).

Se la musica dei Blood Axis è stata anzitutto musica della trasfigurazione, oggi diviene “canonica” nella forma, per trasferire tutta la sua prepotenza concettuale sul piano esclusivamente lirico. Se prima si procedeva per immagini, adesso si procede per parole: una ricerca lirica e testuale che schiva audacemente i cliché del genere (molti dei quali sdoganati dagli stessi Blood Axis) per scavare ancora più a fondo entro le radici della storia, della filosofia e della cultura umana, e progredire oltre. Tant'è che nell'anno 2010 l'Asse ci appare sempre più fuori dal nostro tempo: la musica dell'Asse non è più una fuga in avanti com'era successo con l'incredibile Gospel, ma diviene uno sguardo sempre più profondamente orientato al passato. Con il risultato paradossale che è in grado di mantenere una sua ruvida originalità ed una vivida spinta propulsiva, traendo spunto dal pezzo meno avanguardista mai sfornato nell'arco della carriera e che meno mi aveva entusiasmato dai tempi dell'ingresso in formazione della Lee: quella roboante rivisitazione del classico della tradizione irlandese “The March of Brian Boru”, che diviene oggi il paradigma del nuovo corso, tanto che la musica del 2010 dell'Asse non è altro che musica irlandese con testi del 1200! Non esattamente l'evoluzione che molti di noi ci saremmo aspettati dalla realtà più irriverente e scomoda del recente panorama industriale!

E così, tornando all'iniziale “Song of the Comrade”, il nostro sguardo potrebbe accigliarsi innanzi ai pomposi umori da Oktober Fest della fisarmonica della Lee (decisamente più a suo agio alle prese con il violino!), se non fosse per l'inconfondibile vocione di Moynihan, chiamato a spennellare di nero un folk che nel suo incedere può apparirci disteso, solare, pregno di vita pulsante. E sarà proprio il fascinoso recitato del Nostro, vicino in molti frangenti al Boyd Rice parlante, l'unico vero anello di congiunzione stilistica fra i vecchi e i nuovi Blood Axis (anche se bisogna riconoscere che la chitarra, le tastiere, l'organo di Ferbrache ed il violino della Lee sapranno regalare autentici brividi, richiamando in causa il passato della band, essendo divenuti anch'essi un vero marchio di fabbrica dell'Asse).

Ma è ovviamente Moynihan il vero traino dell'intero carrozzone, che già dalle foto del booklet ci appare come il tronfio capitano della “nave dei giusti”. Titanico visionario, capace di guardare oltre l'orizzonte e guidare i suoi marinai: (come scandito nella già citata “Song of the Comrade”) laddove il camerata dorme, dubita, cade, Lui è pronto a vegliare, a dare la fede, a scoprire l'Oasi per entrambi. Il Moynihan del 2010 ci appare così come un vigoroso e benevolo padre, non privo di afflizioni per il futuro e conscio delle angustie che riserverà il cammino della sua gente, ma che si muove su solide certezze. Come se, in un'accezione tipicamente evoliana, in cui viene adottata una visione ciclica della Storia, egli si ergesse fra le rovine in attesa di tempi migliori, predicatore inascoltato, autentico portavoce di un élite che si autoproclama detentrice del sapere e della saggezza su cui ricostruire l'Uomo.

Le tre parti di “Madhu” sono tuttavia una variabile spuria nel contesto complessivo, facendoci credere che il sentiero intrapreso dall'Asse sarà anche questa volta imprevedibile e foriero di colpi bassi: aperta e chiusa da farfuglianti invocazioni in autentico sanscrito su inquieti tappeti di archi e cornamuse, il brano si muove sinuoso fra scenari contrastanti, fregiandosi fra l'altro di un melodico intermezzo in cui soavi cori angelici flirtano con l'apocalittico recitato del Nostro, che a tratti cercherà di librarsi in vero e proprio canto (“We have drunk and become undead, We have gained what the Gods once hid”).

Peccato che invece il discorso proseguirà all'insegna di un folk dalla struttura assai canonica (cantato/ritornello) e dal più che prevedibile sviluppo. Non che la cosa ci dispiaccia oltremodo: il violino della Lee, ispirata in ogni suo movimento, s'intreccia divinamente con gli arpeggi auto-compiacenti di Ferbrache, a volte ripiegando in struggenti ed evocative ballate (“Wulf and Eadwcer”, “Churging and Churging” e "Erwachen in der Nacht" fra le migliori), a volte inerpicandosi in robuste cavalcate folcloristiche, inarrestabili crescendo in cui il violino si agita irrequieto incalzato da trottanti percussioni dal passo irrimediabilmente marziale (un modus operandi che troverà la sua somma sublimazione nella lunga ed estenuante title-track). Solo di tanto in tanto, il cammino verrà rischiarato dagli angelici interventi vocali della Lee, spesso chiamata a supportare amorevolmente il maritino nei cori, ma che in “The Path” (pezzo quasi piacione che si muove alacremente fra gothic-rock e cantautorato à la Cave) finisce per ritagliarsi un ruolo da protagonista.

In tutto questo, tengo comunque a citare un brano che mi sta particolarmente a cuore e che a mio parere è il solo ad evocare i vecchi (amati) Blood Axis. Parlo dell'eccellente “The Vortex”, metafisica traccia ambientale in cui il pachidermico pianoforte della Lee spiana la strada alla lettura di un passo tratto da “The Story of the Heart” di Richard Jefferies: erede diretto di un brano come “Between Birds of Prey” (apice del sinfonismo wagneriano del Gospel), “The Vortex” apre un abisso infinito in cui il recitato di Moynihan sciorina quesiti insolubili per il genere umano (“Can any creed, philosophy, system, or culture endure the test and remain unmolten in this fierce focus of human life?”), in un contesto autenticamente apocalittico che si pone a metà strada fra i Coil di “Red Queen” e i Current 93 di “Hypnagogue”. In una parola: sublime.

Non per tutti i palati, questo “Born Again”, non perché ostico come lo poteva essere il "Gospel", ma forse perché troppo apparentemente normale. Difficile, del resto, digerire il banjo saltellante e le fughe simil-country che animano la title-track, e forse per molti tutto questo apparirà come una pretenziosa e risibile baracconata. Ed anche al sottoscritto viene di tanto in tanto qualche sospetto. E probabilmente nemmeno io, che mi son prestato alla stesura di questa recensione, mi sono concesso il tempo necessario per metabolizzare adeguatamente e cogliere l'effettiva valenza di un'opera innegabilmente difficile, o forse solo fintamente difficile. In ogni caso, nemmeno lontanamente paragonabile con il "Gospel", che io continuo a preferire.

Ma del resto che dovevo fare? Ricercando invano una recensione sul web di questo “Born Again”, ho capito che l'unica che avrei potuto leggere, in Italia, in Europa, forse nel Mondo, sarebbe stata la mia.

Eccomi servito.

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