Il Leviatano si è risvegliato. Con movimenti lenti ma energici il Mostro Ancestrale emerge dagli abissi di un torbido oceano per attestare la sua terribile esistenza.
Lentamente, ma qualcosa si muove. Poco più di un anno dalla pubblicazione di “Born Again” (secondo full-lenght licenziato sulla lunga distanza – ben quattordici anni lo separano dall'uscita del capolavoro “The Gospel of Inhumanity”!), esce “Ultimacy”, che non è l'ultimo album di inediti dei Blood Axis (chissà quanto dovremo aspettare per quello...), bensì un'operazione di recupero che va a raccogliere ed ordinare tutto il materiale uscito a nome della band in modo sparso e disordinato nel corso dei suoi vent'anni di carriera.
Tutta roba che se dico che è introvabile non intendo che non la trovi in autogrill: no, semplicemente non la trovi.
Non una banale raccolta di rarità per collezionisti isterici, quindi, ma una provvidenziale panoramica di quelli che sono stati i passi che hanno scandito l'allucinato cammino artistico dei Blood Axis su questo mondo: un cammino che certo non si è articolato seguendo le tipiche dinamiche discografiche “del disco che esce ogni due anni”, e che, dalla fondazione della band nell'anno 1989 ai giorni nostri, non si esaurisce nemmeno nei due soli full-lenght ufficiali e nell'ottimo live “Blot: Sacrifice in Sweden”, che era comunque servito a colmare importanti lacune.
Ecco quindi che esce “Ultimacy” a raccontarci una storia di cui ci era pervenuta solo una lontana eco, un viaggio nell'Estremo che non si è mai interrotto nonostante i lunghi silenzi, le sporadiche pubblicazioni, un vedo-non vedo che con il tempo ha permesso all'Asse di assumere contorni addirittura mitici.
Il Leviatano ha dimorato negli abissi dell'oceano, riaffiorando a momenti, eclissandosi per lunghi periodi, riemergendo poi bruscamente: dai primi esperimenti del solo Michael Moynihan (all'epoca compagno di merende di gente del calibro di Douglas Pearce e Boyd Rice, con i quali aveva pubblicato nel 1989 il seminale “Music, Martinis and Misanthrophy”), al provvidenziale ingresso di Robert Ferbrache, l'altro pilastro portante dell'Asse. Le prime compilation, i primi singoli, il monumentale Gospel, poi la brusca virata verso i lidi neo-folk in seguito all'entrata in formazione della compagna di Moynihan stesso, la violinista e polistrumentista Annabel Lee; poi il silenzio, le varie collaborazioni, fra le quali spiccano l'operazione di rilettura del patrimonio tradizionale irlandese dietro al monicker Witch Hunt: The Rites of Samhain (a braccetto con B'eirth degli In Gowan Ring), e il visionario “Absinthe: La Folie Verte”, scritto a quattro mani con i pionieri industriali francesi Les Jojaux de la Princess. Il ritorno in pompa magna, finalmente, con un album enorme come “Born Again” che certo non ha deluso le aspettative.
Lungo questi vent'anni ogni singola uscita dei Blood Axis, anche la più apparentemente insignificante, lungi dall'essere relegata allo status di materiale di serie B, ha spesso segnato significativi passi in avanti o bruschi cambi di direzione nel percorso artistico dei Nostri (basti pensare alla folgorazione folcloristica con la rivisitazione del tradizionale irlandese “The March of Brian Boru” del 1998), e non a caso in “Ultimacy” riassaporiamo classici in piena regola, riproposti puntualmente dal vivo dalla band (la mantrica “Herjafather”; la marziale ed antemica “Lord of Ages”, giusto per citarne un paio). Tutto eccellente, quindi, niente di superfluo nella discografia dei Blood Axis, perché i Blood Axis non sono un passatempo, o peggio ancora una macchina per soldi (quanto lungi!), ma un'entità artistica che è riuscita a non disperdere il proprio seme invano, che ha saputo attendere con pazienza il momento propizio per muoversi, centellinando con incredibile parsimonia ed efficacia ogni briciolo della propria verve creativa, riversando ogni goccia della proprio libido in creazioni che nel tempo hanno acquisito il sapore della Leggenda.
Oggi troviamo tutto questo in un'unica opera, e se è vero che ogni singolo episodio fa storia a sé, è anche vero che ogni tassello si avvicina agli altri per l'altissimo livello qualitativo (questi, gente, non hanno sbagliato un colpo!): anche se il Leviatano ha infatti assunto nel tempo forme spesso diverse (è Moynihan stesso che colloca la sua arte in un mutevole stato di sospensione fra Tradizione ed Innovazione), vi è un filo di continuità che lega in modo sotterraneo i settantasei minuti che compongono la presente opera, che vive di contrasti ed energie cozzanti, che sa miscelare miracolosamente visioni post-industriali, estetica del brutto ed un appassionato recupero delle antiche mitologie nordiche, il tutto condito da un arcano esoterismo che serpeggia inquieto fra i meandri dello sguardo lucido ed irriverente di Moynihan.
Apre la raccolta “The Ride”, che si muove da subito con passo da murder ballad per esplodere in un ritornello tronfio e paganeggiante in cui il vocione di Moynihan viene presto doppiato dalla dolce compagna, fra il trottare di percussioni marziali e le bordate elettriche di un basso distorto. Il brano, che pare uscire direttamente dall'ultimo lavoro, è una cover di Brian Pearson (originariamente contenuto nella compilation “Looking for Europe” edita nel 2005) ed è il brano più giovane della raccolta: da esso origina un viaggio che ripercorre a ritroso il cammino dell'Asse, una marcia trionfale ed al contempo intrisa di misantropia, nostalgia per un passato irrecuperabile e visioni apocalittiche tratteggianti un presente terribile ed un futuro altrettanto tremendo. Un viaggio che adotta inizialmente le sembianze di sofisticate sonorità neo-folk (che ben rappresentano l'attuale corso della band, e a tal riguardo basti pensare al poker iniziale di brani, fra i quali svettano la rude “Wir Rufen deine Wolfe”, cantata in tedesco, e l'eterea “Mandragora (Alraune)”, che brilla per l'ugola fatata della Lee); una discesa negli inferi che procede per le vie della scarnificazione e dell'atrofizzazione sonora, assestandosi progressivamente sui lidi inquieti delle rappresentazioni industriali che hanno caratterizzato la prima fase artistica dell'Asse (come non citare i capolavori “Electricity” e “The Storm Before the Calm”, gelido incubo industriale la prima, abissale traccia ambientale la seconda), per concludersi infine con quel gioiello di post-punk marziale e deviato che è “Walked in Line”(frutto della collaborazione con l'entità “martial pop” Allerseelen), classico dei classici, che finalmente possiamo ascoltare a ripetizione fino alla fusione di stereo, cd ed orecchie.
E il bello è che tutto coesiste pacificamente, amalgamato dal greve recitato di Moynihan: che si improvvisi cantore sgraziato o si atteggi ad aspro arringatore o cinico profeta dell'Apocalisse, non avrà la grazia del cantante sopraffino, ma il suo carisma è innegabilmente la benzina che muove le quattordici tracce, sospingendo in avanti l'arte di un ensemble che sa rendere inimitabile l'approdo a qualsiasi tipo di sonorità, impastando continuamente Sacro e Profano, reinventando brani altrui o della tradizione popolare, intraprendendo gli accostamenti più azzardati, sporcando di sample, droni e distorsioni il folclore più incontaminato, o macchiando con sinfonismi, percussioni a mano o strumenti acustici il procedere spietato delle macchine: in totale libertà, totalmente fuori dagli schemi, non solo incarnando la spinta provocatoria tipica della vecchia scuola industriale, ma allestendo un sound unico che è il prodotto dinamico di forze contrastanti e lontanissime volte a distruggere il presente e rigenerare il futuro attraverso le lezioni del passato.
Non è un'operazione semplice, e nemmeno l'ascolto lo è: i Blood Axis non sono dei piacioni, possono sembrare goffi, rozzi, molesti, di sicuro non sono la quintessenza dell'eleganza (sentite come raschia lo sputacchiante tedesco di Moynihan in “Wir ruten deine Wolfe”, come urtano i barocchismi di plastica di “Lord of Ages”) laddove altre entità “apocalittiche” hanno saputo con la maturità confezionare dischi sempre più raffinati e gradevoli ai timpani. I Blood Axis no: che suonino trucido folk o merda industriale, piacere non è certamente la loro priorità. O li si ama o li si odia: formula inflazionata, ma mai come in questo frangente calzante.
Mi sarebbe a questo punto piaciuto rovesciarvi addosso un palloso track by track (cosa non facile, dato che trovare informazioni sui brani non è cosa semplice, ma qualcosa ero riuscito a raccattare). Poi mi son detto: affanculo, ascoltatevelo!
Track-list:
1) The Ride
2) Wir Ruten deine Wolfe
3) Mandragora (Alraune)
4) The March of Brian Boru
5) Follow Me Up to Carlow
6) Der Gefallene Engel
7) Herjafather
8) The Hangman and the Papist
9) Bearer of 10.000 Eyes – Lord of Ages
10) Electricity
11) Life
12) Eternal Soul (Germania remix)
13) The Storm before the Calm
14) Walked in Line
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