Con Agents of Fortune (’ 76), inizia, ufficialmente, la seconda parte della carriera dei Blue Öyster Cult, ufficialmente iniziata cinque anni prima e sviluppatasi attraverso la pubblicazione di tre eccellenti album in studio e di un live. La svolta posta in essere dal quintetto newyorkese non è indolore per gli appassionati del gruppo, dato che la musica prodotta d’ora innanzi da Bloom e soci sarà caratterizzata da minor inventiva ed impatto, a beneficio di una suoni più raffinati ed ovattati, in linea con la tradizione rock blues americana: specie oltreoceano, il pubblico accorrerà numeroso, ed il nome di BÖC diventerà parte del mainstream, assieme a quello dei contemporanei Aerosmith, Grand Funk Railroad, Kiss, Styx, ZZ Top, Journey, Kansas, etichettati come parte del c. d. “Arena rock” (rock da stadi) tanto in voga nella seconda parte degli anni ’ 70 e continuamente programmati da tante radio FM dell’epoca. La cosa lascia l’amaro in bocca per chi rammenta le origini underground dei BÖC, finiti in sostanza nella discografia dell’americano medio à la Homer Simpson, che, non a caso, è un dichiarato fan del gruppo, citato in alcune puntate del noto cartoon. Non creda il lettore che quest’introduzione implichi una bocciatura senza rimedio per l’album in commento, che, a tratti, è un prodotto più che buono, anche se segna irrimediabilmente la perdita della magia che si respirava nell’ omonimo album di esordio, in Tyranny and Mutation ed in Secret Treaties.
Piuttosto che descrivere l’album track by track, preferisco scompaginare l’ordine dei brani, suddividendoli fra quelli che esprimono in maniera più chiara la svolta sonora del gruppo e quelli che meglio si riallacciano alla tradizione. Della prima categoria fanno parte l’opener This ain’ t The Summer Of Love, pezzo che non raggiunge i tre minuti e che mi sembra francamente banale, con un cantato piuttosto fastidioso per gli standard del gruppo, quasi manieristico, la banale True Confessions, scritta da Allen Lanier, prima concessione al pop rock nella carriera del gruppo. Discorso a parte va fatto per l’ormai famosissima Don’t Fear the Reaper, scritta e cantata da Donald Roeser, pezzo di ottima fattura e di bella presa melodica, divenuto famoso soprattutto per essere stato inserito da John Carpenter nella colonna sonora di Halloween (’78) e per essere molto apprezzato da Sthepen King: la malinconia del testo ben si coordina con le sonorità elettroacustiche delle chitarre, anche se, alla lunga, l’ascolto del brano può stancare.
Sempre caratterizzata da un forte melodismo è E. T. I. (Extra Terrestrial Intelligence), in cui la band ripropone i consolidati riferimenti alla sci – fi, con un ottimo lavoro di chitarra ed un bell riff in controtempo alla chiusura del ritornello: uno dei pezzi più piacevoli dell’ album. Un debito verso il classic rock americano è anche Debbie Denise, toccante ballad conclusiva dell’album dagli intensi passaggi acustici e dal coro rilassato, scritta da Patty Smith (con un testo originario che occhieggiava al lesbismo, poi cambiato in corso d’opera). Della seconda categoria fanno parte brani più atipici e meno scontati, in cui si vede la mano dei fratelli Bouchard, che a posteriori sono i veri artifici del lato oscuro del gruppo: The Revenge Of Vera Gemini, scritta con la solita Patty Smith, vede un Bloom nel pieno della forma e forse più a suo agio in un pezzo particolarmente moderno per i tempi, in un alternarsi con la voce femminile che dà una particolare inquietudine al brano, proveniente quasi da un’ altra dimensione. Da notare l’eccellente lavoro delle chitarre, più attente alla tessitura ritmica ed alla creazione di tensione emotiva che alle evoluzioni rock che sarebbe lecito aspettarsi dal gruppo. Sinful Love, brano ritmato e costruito attorno alla batteria, con un riff killer, si giova dell’ intervento dei cori femminili per creare un climax ossessivo e perverso, in linea con il testo. Tattoo Vampire, scritta dal bassista, è quasi una versione velocizzata della vecchia Hot Rails To Hell, e quindi il brano più violento dell’ album tutto, un rock’ n’ roll indiavolato e sprezzante. Sempre di Joe Bouchard è la splendida Morning Final, ballata con debiti verso la psichedelica dei tardi anni ’ 70, dallo sviluppo non banale e dai raffinati arrangiamenti: splendido il testo con riferimenti alla vita della metropoli ed al degrado urbano della New York di quegli anni, rappresentata in "Serpico" o in "Quel pomeriggio di un giorno da cani" con Al Pacino. Tenderloin è l’ottimo contributo di Lanier all’album, anch’ essa un mid tempo per sorretto dalle tastiere e dai sintetizzatori, con un’ottima melodia ed un eccellente sviluppo.
Giunti alla fine dall’ ascolto, resta il dubbio del voto da attribuire all’ album: mi attesto su un 4/5 a fronte dell’ intriseca qualità del lavoro, anche se i veri fan dei BÖC potrebbero sentirsi autorizzati a dare un voto inferiore. Nel complesso, si tratta comunque di un lavoro consigliato a chi non conosce il gruppo, e vuole avvicinarsi, a piccoli passi nell’ universo sonoro della miglior band americana degli anni ’ 70. Una nota conclusiva sulla copertina: "Agents Of Fortune" sono le carte che ha in mano il prestigiatore ritratto in copertina, ma attenzione all’indice dell’ individuo: punta sulla croce di Kronos/croce del Kaos, del disordine e del "non sense" che governa la cosmogonia del gruppo. Geniale e sottilmente angosciante.
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