Dopo la deludente prova fornita con Mirrors (’79), album eccessivamente aperto al soft rock della west coast, i Blue Öyster Cult entrarono nella fase più critica della loro decennale attività, dovendo decidere se proseguire nella loro personale conversione al pop rock, enfatizzando il percorso iniziato con Agents of Fortune (’76), o tornare alle proprie radici, all’hard rock oscuro e viscerale che aveva contraddistinto la prima parte della loro carriera.
Cultösaurus Erectus (’80), conferma il momento difficile della band, trattandosi di un album di compromesso, in cui l’attitudine leggera degli ultimi lavori del gruppo viene parzialmente abbandonata a favore di un prepotente hard rock, suonato con eccelsa competenza e prodotto, in maniera estremamente professionale, da quel Martin Birch che, nei primi anni ’70, aveva contribuito ad edificare il muro del suono dei Deep Purple. Come tutti gli album di passaggio, anche Cultösaurus Erectus risente delle incertezze di fondo della band e della difficoltà dei BÖC a ricollocarsi su una scena musicale ormai presidiata dai gruppi più giovani ed aggressivi, provenienti soprattutto da oltremanica, in cui l’estetica del Culto sembra un po’ sbiadita, pur essendo di gran lunga il miglior lavoro prodotto dal gruppo sin dai tempi del menzionato Agents of Fortune.

L’album si apre con l’eccellente Black Blade, in cui i classici temi fantascientifici del gruppo si mescolano alle rinnovate sonorità impresse da Birch, con le chitarre di Roeser a tessere una ritmica sghemba e stralunata: il cantato di Bloom torna ai vecchi passaggi teatrali e recitati, fino all’implosivo finale, con tanto di voce digitale ad accompagnare l’ascoltatore verso mondi ignoti. La successiva Monster, dal riff tirattissimo, si contraddistingue per gli improvvisi break dei fiati d’impronta jazzistica, per riprendere nel violento ed incisivo tema principale. Divine Wind, dai toni più compassati e dal chitarrismo quasi new wave, suona quasi come una Vera Gemini part. II, pur risultando, alla lunga, piuttosto ripetitiva: ciò non toglie che la malinconia e l’inquietudine che promanano dal pezzo restino a lungo impressi nella mente dell’ascoltatore. Deadline, contraddistinta da numerose aperture melodiche, risulta forse troppo legata al recente passato per piacere agli aficionados del gruppo, e appare destinata ad un’intensa programmazione sulle principali stazioni fm rock: tipico pezzo da autoradio, per intenderci. The Marshall Plane, con finte sovrincisioni live, prosegue con un rock un po’ stantio (ed un intermezzo centrale che cita espressamente Smoke on the Water…. tributo al produttore?), anche se il cantato di rimane sempre di prima classe, malvagio il giusto. Hungry Boys, segnato dall’insistito pianoforte di Lanier, è altra canzone piuttosto facile, e forse troppo simile, nello svolgimento, alla coeva Rough Boys di Pete Townshend (in Empty Glass). Assai simile alla precedente è Fallen Angel, melodica e trascinante, anche se, dall’ascolto, si intuisce il principale mutamento nello stile dei ‘Cult: l’inquietudine che trasudava dai solchi dei primi dischi, implicita e destinata a crescere con l’ascolto di quei brani, viene qui restituita nel suo profilo esteriore: ai sussurri dei primi album, fanno eco le grida di questi pezzi più recenti, intense ma forse artificiose, ripetizione di uno schema che sembra ormai stantio. Lips in the Hills risolleva fortunamente le sorti dell’album, grazie ad un riff secco, potente e stentoreo, ottima introduzione allo strepitante Bloom: quasi una nuova versione di Hot Rails to Hell, riattualizzata ai tempi. Unknown Tongue chiude l’album in maniera più che degna, dolente e morbosa al punto giusto, rinverdendo i fasti del passato, anche se, nell’ascoltatore più accorto, si è fatta ormai strada l’idea che il combo newyorkese abbia ormai dato il meglio.

Un album interessante ma non indispensabile dunque, inferiore al successivo Fire of Unknown Origin, ma sempre ben confezionato, con solito riguardo all’artwork di copertina. Il voto è un giusto mezzo, anche se il Cultösauro ci fa capire, non senza autoironia, come in quel 1980 gli Öyster Boys fossero ormai cresciuti, e, musicalmente parlando, fossero ormai preistoria.

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