Tutti (e dico proprio tutti) pensano che i maggiori responsabili della nascita, agl’inizi degli anni settanta, del movimento Heavy Metal siano stati i vari Black Sabbath, Deep Purple e addirittura Led Zeppelin... Tutti (e ripeto: proprio tutti) credono che la musica sia passata da questi gruppi e che, in un sol balzo, sia approdata nei lidi del Metal, per come lo conosciamo. Tutti (e purtroppo dico proprio tutti) non sanno o non si ricordano di chi ha fatto il lavoro sporco... Nessuno si ricorda di chi si è mosso, lontano dai riflettori, per riuscire a creare (involontariamente) quello che si può considerare a tutti gli effetti l’anello di congiunzione tra l’Hard-Rock dei sopraccitati gruppi e l’Heavy metal classico che spopolò alla fine dei settanta con gruppi come Judas Priest, Motorhead etc... (da cui poi si sviluppò tutto il resto), diventando (inconsapevolmente) padre del movimento: i Blue Oyster Cult.
Per usare una metafora “vegetale”, se si considera il mondo Metal (e tutta la musica “dura”) come un albero, dove i rami sono i principali generi (heavy, thrash, epic, black, death, power, gothic etc...) e le foglie rappresentano i sottogeneri (acustic, synphonic, viking, brutal, jazz majestic amniotic rebel nu con la panna etc...), i B.O.C. sono, di diritto, il tronco di quell’albero (le radici lascio alla vostra immaginazione capire chi sono ma vi consiglio di rileggere l’inizio della rece).
Un gruppo che ha talmente influenzato la scena metal anni ottanta, che praticamente tutti i gruppi ne hanno coverizzato qualcosa: dai Judas Priest ai Metallica, dagli Iron agli Slayer agli Iced Earth.
Nati a New York, alla fine dei sessanta, dall’inquieta e offuscata mente di un giornalista-critico musicale poco raccomandabile tale Sandy Pearlman (uomo dalle strane idee su vita, occulto e musica), e formati da una strana amalgama d’intellettuali e motociclisti lontanissimi dalle “vibrazioni musicali positive” della decade precedente, saranno tra i primi a far incontrare in un unico contenitore musicale, il patos romantico ed emozionale del Rock-Blues con tematiche e atmosfere decisamente horrorifiche basate su incubi alieni e dannazioni “urbane”... Il tutto condito da una sperimentazione controllata che non ha niente a che fare con il prog-rock del tempo, ma che punta nella direzione opposta: velocizzare, incupire e appesantire la musica, senza complicazioni strumentali o virtuosismi da capogiro, ma esprimendo la varietà senza cadere nella complessità (esecutiva).
In definitiva, potreste dire voi, fanno quello che gli anglosassoni Black Sabbath avevano già fatto (tematiche Horror e atmosfere “doom” da “Dark-Rock Band”)... Ma la differenza è palese quanto criptica: mentre in Inghilterra Iommi e Ozzi si “divertono” a parlare di morte e malvagità collegandola al (nemmeno troppo celato) mondo satanico, i Blue Oyster Cult iniziano a parlare del male come il lato più misterioso e incontrollato della vita, quello a contatto con non precisate presenze “aliene”, cercando di capirne le possibili contaminazioni sulla tranquilla quotidianità (insomma, roba da far venire i brividi al più duro dei rockettari), rivolgendo la musica “cupa e dura” ad un pubblico adulto e quindi meno “giovanile” ed estremista.
Se si potesse usare solamente un aggettivo per la musica dei B.O.C. userei sicuramente: VISIONARIA.
Con i B.O.C. l’HardRock varca i confini “festaioli” degli anni settanta e abbraccia miraggi innominabili e surreali di inquietudine e “fantasia reale”, senza però i tipici eccessi adolescenziali. Nel 1973, dopo un debutto omonimo molto più che “psichedelico”, il “Culto Dell’Ostrica Blu” ci regala quello che personalmente considero il primo disco di Heavy Metal propriamente detto, della storia... Il titolo?... "Tyranny And Mutation", come dire: Legge e Caos; Ordine e Istinto; Il Rosso e Il Nero (perché non c’è niente di candido nei B.O.C.), come le due parti dell’album (curiosamente il termine Heavy Metal viene usato, per la prima volta, proprio per indicare il Rock dei Blue Oyster Cult e degli Iron Butterfly).
Un album innovativo e deviato, maligno in ogni nota e spiazzante nella sua profondità drammatico-teatrale senza fine. Un album che parla di cose che l’uomo farebbe meglio a non sapere, ma che ne parla con quella ironia tipica di chi negli abissi ci vive da sempre. Un disco che vive di disturbi metropolitani e magia nera che si mescolano in un cocktail dall’attualità, ancora oggi, sconcertante. La musica contenuta nell’album è la più semplice alchimia tra possenti e veloci riff di chitarra (offerti dalla coppia di asce Eric Bloom e Donal “Buck Dharma” Roeser, quest’ultimo un vero e proprio maestro alla pari di Blackmore e Page), atmosfere doom date dall’abile e innovativo lavoro alle tastiere di Allen Lanier (che in molti casi diventa anche terzo chitarrista, primo caso di tre chitarre nella storia del rock), sezione ritmica dinamica, geniale e potentissima (per il tempo) coadiuvata dal pazzo-basso di Joseph Bouchard e dalla geniale batteria di Albert Bouchard (i due sono fratelli e quest’ultimo sposerà una certa Patti Smith che scriverà alcuni pezzi per il gruppo di cui doveva, all’inizio, far parte) e cantato tagliente e maligno dello stesso Eric Bloom (una specie di Robert Plant con la raucedine).
Tutto è spaventosamente fresco e nuovo... La varietà all’interno delle tracce, la potenza evocativa, le atmosfere fantastiche e quotidiane allo stesso tempo, la leggerezza con cui si affrontano temi come male, dolore e follia... Come a dimostrare che basta guardarsi attorno per capire che non possiamo temere quello che già da sempre ci circonda.
Fin dalla bellissima copertina si riesce a capire dove la musica andrà a parare: una piramide squadrata e vuota che, appoggiata ad una scacchiera simbolo del bene e del male, tende verso lo “stemma” del gruppo (saturno), che domina in centro ed emana onde bianche e nere che testimoniano l’alternanza tra ordine umano e caos cosmico.
Il disco è pieno di voli irraggiungibili:
si parte con il veloce e violento Rock’n’Roll di “The Red & The Black” (esempio di come il rock’n’roll possa essere dannatamente cattivo) e si passa all’Hard Boogie sperimentale e scatenato di “O.D.’d On Life Itself” che con il suo incidere in crescendo, anticipa molto del glam che spopolerà negli anni ottanta. Le luci si spengono e l’odore di zolfo si fa insopportabile... Arriva la violentissima “Hot Rails To Hell”... Che dire di questa canzone... Credo che Glen Tipton e Rob Halford (futuri master-minds dei Judas Priest) se la siano ascoltata fino alla nausea. Sembra, ancora oggi, di trovarsi di fronte a qualcosa di incontrollabile... Atmosfere maligne che si nascondono per tenderti un’improvvisa imboscata (“Wings Wetted Down”), tensioni “sessuali” al limite della decenza (“Baby Ice Dog”, scritta da Patti Smith), scatti inaspettati d’inspiegabile violenza repressa (la stessa “Hot Rails To Hell” o l’oscura e tesissima “7 Screaming Diz-Busters”) che anticipano, di quasi 10 anni, molto di quello che verrà chiamato Thrash Metal, ambiguità serena, solo in apparenza, che domina la doomeggiante “Teen Archer” e un’atmosfera aliena che sovrasta tutto e tutti come il controllore invisibile di un incubo Orwelliano.
Un lavoro ricco di “maestosità atmosferica” e seria epicità, la combinazione deviata e perfetta tra incubo e realtà, tra fantasia e quotidianità, tra melodia e durezza... Insomma... Quello che il Grunge cercherà di fare quasi vent’anni dopo (senza riuscirci pienamente). Un album che ha segnato la storia del Rock e del Metal in maniera indelebile... Un album che suona fresco e attuale come 30 anni fa... Un album che riesce a raccontare l’orrore del mondo con un linguaggio incredibilmente adulto e maturo... E in un periodo come questo, dove molti pensano che il metal sia una musica per bambini o per sfigati immaturi, sarebbe bene ricordarlo (e riascoltarlo).
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