Non è difficile capire perché, almeno in italiano, sul web si parli così poco di un gruppo pur così valido come Bluebottle Kiss. Il fatto è che la band australiana, capeggiata dal chitarrista Jamie Hutchings, autore di tutti i brani nonché vocalist, non si presta ad essere facilmente incasellata, ad essere sintetizzata in un genere, in un ambito che permetta al povero recensore di dare un'idea senza doversi per forza sobbarcare la fatica, non sempre produttiva, dello spiazzante track by track. Se dovessi, obtorto collo, inquadrarlo direi senz'altro "indie rock", ma questa indicazione è talmente generica che mi aiuta ben poco a far comprendere la ricchezza, la versatilità e la sorprendente carica di energia che il gruppo australiano riesce ad esprimere.
L'ultimo loro lavoro "Doubt Seeds" non solo conferma quanto di buono hanno dimostrato con quelli precedenti, con "Revenge Is Slow" in particolare, ma segna un ulteriore, deciso passo in avanti che li colloca, per quanto mi riguarda, nel ristretto novero delle band rock sulle quali si può fare sicuro affidamento.
Fin dal primo brano del doppio(!) album, "Your Mirror Is Volture", si comprende che il leader della band, è uno che ha un ricco background, non solo musicale, ed di quelli a cui piacciono gli "innesti", le contaminazioni: le chitarre potenti e distorte, che producono un sound molto evocativo quasi garage, echi di Stooges, si vanno a misurare con un sax in odore di free jazz; un accostamento che richiama alla mente un'altra band australiana ormai storica: i Died Pretty.
Ancora energia pura in "Nova Scotia" che sembra un pezzo del primo Springsteen, rivisto, però, da chi ha conosciuto il punk e la caduta delle speranze. Comunque, non appena ti sembra di aver inquadrato il corposo album seppur approssimativamente, Hutchins e soci si divertono a cambiare scenario, e si ricomincia con la lista delle influenze e dei rimandi. "Fire Engine" parte come una robusta ballad rock per poi avviarsi, con un crescendo a cui dà il suo apporto uno straniante coro femminile, al feedback spinto fino al rumorismo; "Slight Return" è adrenalinica e spigolosa, con il sardonico sorriso del buon Frank Black che appare sullo sfondo. Chiude il primo cd una ballata acustica delicata e suadente, "Little Disappearer".
Ma, pur essendo la prima parte a tratti entusiasmante, è nel secondo cd che i nostri sparano le cartucce migliori. L'apertura di "Dream Audit" è a dir poco sorprendente, anche per un lavoro come questo che non lesina certo colpi di scena: un sax alla Coltrane spadroneggia per i primi due minuti, per poi confondersi in un caos free dal quale scaturisce una poderosa post-rock song che non dispiacerà di certo ai fans dei Sonic Youth. Non c'è solo il jazz tra i retrogusti; anche forti aromi black sono presenti soprattutto in questa seconda parte; e il finale del brano più diretto e trascinante "The Judas Hands", che ricorda un po' certe sulfuree e più movimentate canzoni dell'illustre compatriota Nick Cave, con sax e un coro quasi gospel che si rincorrono, lo testimonia in modo inequivocabile. Con "Speak Up Memory" l'atmosfera si fa cupa e malinconica: una voce femminile, quella della fascinosa Sarah Blasko, duetta con Jamie in brano che Steve Kilbey (The Church, altro punto di riferimento australe dei nostri) avrebbe volentieri firmato.
Come se ciò non bastasse, nel finale i nostri tirano fuori dal cappello anche una raffinata e morbida pop-song alla Costello, "The Black Birds", che nel finale, però, si accende grazie ad un assolo di chitarra così tirato come se a suonarlo fossero dei "piccoli dinosauri".
Si sa, tanti preferiscono, in genere, le rassicuranti certezze, le fideistiche credenze, anche in campo musicale. Jumie Hutchings lo sa, ma ha deciso di continuare a gettare i "semi del dubbio", convinto che vi sia terra che possa accoglierli. Dalle mie parti, lo avrete intuito, già hanno attecchito, mettendo in pochissimo tempo ben salde radici.
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