Ecco l’album-mito di tutta una generazione di sfigati in Prada e Ralph Hunger (o come cazzo si chiama), che si sono esaltati all’epoca del Brit-Pop. Perché questo disco è il simbolo di quel sottogenere merdoso che ha sfornato artisti del calibro di Menswear e Suede, e del modo vergognoso e senza fantasia con cui i gruppi inglesi negli ultimi 15 anni hanno riciclato i loro più classici stilemi pop, proponendoli con la loro consueta dose di paraculismo. Di tutto questo nulla, i Blur sono stati appunto il top.

“The Great Escape” è l’album della “battle of the bands” con gli Oasis. Una sfida che monopolizzò le cronache musicali oltremanica nel 1995, con frasi tipo “gli auguro di morire di Aids” e gare a chi vendeva di più: questo per dire quanto alti sono i contenuti culturali che tale musica evoca. Come disse Nick Cave , “chiedermi cosa penso dei Blur e degli Oasis è come chiedermi cosa penso dei Power Rangers” .

Va detto però che i Blur sono molto più eclettici dei monociglio Gallagher: laddove gli idioti di Manchester si limitano a copiare i Beatles e ad aggiungerci qualche schitarrata alla Stones / T-Rex, Albarn e soci in questo disco snocciolano tutto il bignamino del bravo brit-popper, in grado di blandire e rassicurare il classico ragazzino inglese e i borghesucci cocainomani londinesi che non vanno aldilà del proprio naso.
La carrellata di scimmiottamenti su "The Great Escape" è davvero impressionante : si inizia coi Kinks (“It could be you” ) si prosegue con penosi tentativi di emulare la genialità melodica degli XTC (“Best days” e “He thought of cars”), poi qualche innocua goccia di new wave (“Entertain me”), saldi Clash fine 77 (“Globe alone”) ovviamente tonnellate di Beatles ovunque (“Charmless man”, “The universal” e l’orribile singolo “Country house”, con orribili cori pre-Povia e rime tipo Balzac/Prozac che avranno fatto felici i sostenitori della superiorità culturale albionica). Il bello è che tale esercizio manieristico è fatto in modo a dir poco atroce, in quanto i “lads” sanno a mala pena strimpellare i loro strumenti, e il biondino slavato gracchia come una cornacchia.

In conclusione, “The Great Escape” è l’equivalente britannico di “Nord sud ovest est” degli 883. Uno straordinario, involontario, spaccato sociologico della gioventù cerebrolesa del paese che lo compra in massa. Nello specifico, di certi ventenni fighetti middle class e aspiranti tali delle periferie: quelli che aspettano il fine settimana per calarsi l’ecstasy (cfr. “Entertain me”), che sono vestiti firmati dal capo ai piedi, che passano le loro tristi estati tra Ibiza, birra e Coca cercando di rimorchiare.

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