A Blaze In The Northern Sky.
De Mysteriis Dom Sathanas.
Storm Of The Light's Bane.
In The Nightside Eclipse.
Hvis Lyset Tar Oss.
Nemesis Divina.
Stormblast.
Bergtatt.
Frost.
Il black metal della “seconda ondata”, quello gelido, ferino, pagano, figlio del suo tempo, è ormai un ricordo lontano. E cosa rimane oggi di quei giganti maledetti? C'è chi si è dato all'ambient con risultati desolanti; chi invece ha sperimentato sul serio e intrapreso percorsi del tutto avulsi dalla scena; chi ha fatto addirittura retromarcia per amore degli anni '80; chi non sa più che pesci pigliare e si trascina per inerzia; chi ha preferito rimpolpare la propria musica con orpelli orchestrali di dubbio gusto; chi è passato a miglior (?) vita; e infine c'è chi si impegna a sollevare la media ormai scarsa di un genere che, dopo oltre vent'anni, sembra girare su se stesso. Tante strade intraprese, ma un solo fantasma a sovrastarle.
Di tutto ciò, al francese Vindsval frega ben poco. Tra gli artisti appartenenti alla scena, col suo monicker Blut aus Nord è stato forse l'unico ad avere sempre avuto una grande padronanza dei propri mezzi, nonché una conoscenza profonda e un'interpretazione personale del genere. Lo dimostrano gli esordi ancora grezzi, ma evocativi, di Ultima Thulée (1996); e lo dimostrano soprattutto le bombe atomiche gettate a inizio millennio, un momento particolarmente (e ironicamente) nero per il black metal: se The Mystical Beast Of Rebellion (2001), con tutti i suoi difetti, conteneva già in nuce certe novità, è con The Work Which Transforms God (2003) che è arrivato lo scossone decisivo, un rigurgito incontrollato di marciume industriale - memore degli insegnamenti di Swans, Godflesh e Neurosis, veri e propri totem dell'apocalisse. Tutto ciò già prima del “culto” dei Deathspell Omega, se ci pensiamo bene. Ed ancora con MoRT (2006) a Blut aus Nord è spettato l'onore di sbriciolare ulteriormente le fondamenta del black metal, gettandolo negli oceani morti del nirvana: la speranza di una rinascita sembra ormai inutile, nonsenso e caos hanno preso il sopravvento, non sono concessi appigli o punti di riferimento. È il suono del logos che va in cancrena.
Non mi dilungherò oltre in una disamina sulla recente saga 777, un altro ottimo esempio di come rimaneggiare e rivoltare la materia a proprio piacimento, e nemmeno sui possibili deragliamenti extra-metallici (trip-black? ID(B)M? bossanova?) che lo stesso Vindsval ha ipotizzato. Fatto sta che, in tutto questo puttanaio di sperimentazioni, dissonanze, esoterismi, saghe e seghe varie, Blut aus Nord è sempre rimasto anche sinonimo di Black Metal, maiuscolo, tout court. Epico, mistico, ultramelodico, persino celestiale se vogliamo, ma mi venga un accidente se Vindsval si è dimenticato della bellezza sfacciata che può evocare un semplice riff in tremolo su un tappeto di blast beat e una tastierina di contorno. Il ciclo dei Memoria Vetusta è lì a ricordarcelo, e lascia ancora più allibiti il fatto che i tre episodi (i quali, come gli album 777 e gli EP di What Once Was, non costituiscono una trilogia, e sono quindi tutti destinati ad avere un seguito!) si siano presentati a distanza di non pochi anni l'uno dall'altro, intervallati dalle suddette esplorazioni sonore. Chi riuscirebbe a mantenersi così prolifico e costante, senza mai perdere di vista le origini e gli intenti, e soprattutto non venendo incontro a nessuno? Più che mai oggi che gli artisti si fanno (legittimamente) influenzare dai contratti, dai compromessi col pubblico, dalle lunghe attese tra una pubblicazione e l'altra, e l'urgenza di comunicare passa in secondo piano.
Ma Vindsval è lungimirante, sa molto bene che la sua discografia imponente non verrà vista come una semplice sequela di album, e che anzi sta già acquistando una coerenza concettuale sempre più architettonica. Cielo e terra, distruzione e restituzione, caos e quiete, tradizione e contaminazione, ora si alternano e ora si compenetrano: arriviamo così, nella terza decade di carriera, al terzo episodio di Memoria Vetusta, sottotitolato Saturnian Poetry (2014), il quale marca un glorioso culmine e al contempo un ritorno alle origini. Dopo il viaggio astrale (come da titolo) di Memoria Vetusta II, Blut Aus Nord approda nuovamente sul grembo di madre terra, fonte primaria d'ispirazione, di serenità, ma anche dispensatrice di meraviglie e misteri. La copertina, ad opera dello stesso autore dello storico In The Nightside Eclipse, fotografa alla perfezione l'atmosfera che si respira in questi sei brani di black metal veemente, eppure armonioso e raffinato.
Saturnian Poetry mette da parte tutti i momenti di calma introspettiva (e i rimandi al buddhismo) di cui era cosparso il precedente capitolo e scatena la forza degli elementi, senza esclusione di colpi e anche senza concedere spazio al nichilismo, all'inflazionata acredine anticristiana o a pagliacciate grim&frostbitten. Questi sei gioielli vanno contemplati come se si assistesse a un sublime spettacolo naturale, abbandonandosi allo scorrere delle melodie lussureggianti. Il suono è più organico e vivo, oserei dire terreno, stavolta anche grazie al reclutamento del creativo Gionata Potenti alla batteria: scordiamoci quindi degli incubi post-apocalittici, e diamo finalmente un taglio alla drum machine, da sempre marchio di fabbrica dei BaN. Traspare ancora di più lo spirito nobile dell'autore, ed è proprio questa capacità di suonare con un piede ben piantato nel passato (grezzo, oscuro, primordiale) e un piede nel presente (colto, maturo, consapevole) a renderlo di conseguenza un po' fuori dal tempo, o meglio, chiuso in un mondo tutto suo.
Saturnian Poetry è una sinfonia pagana per chitarre: riff, arpeggi e assoli si intrecciano, si inseguono e si riprendono con eleganza; le tastiere emergono come sfondo occasionale per esaltare i mo(vi)menti più salienti; la voce, sia roca che in clean solenne, è un'eco lontana, proveniente forse da qualche valle remota del freddo nord. Tutto si fonde in un'estasi panica, un'overdose di melodia ed epicità mai stucchevole, impossibile da seguire a un primo ascolto ma destinata a invecchiare ed inebriare come il buon vino.
Dissezionare ogni singolo brano o segnalare il migliore sarebbe in questo caso inutile e troppo macchinoso, un po' per l'omogeneità intrinseca del lavoro, e un po' perché mi sono rotto di sbrodolarmi addosso, ma va fatta una menzione speciale per l'ultimo. Con tutto il rispetto, vorrei tanto farlo ascoltare ai vari veterani blackster e satanassi della prima ora, che si sono chiaramente persi per strada e forse manco se ne sono accorti. Vorrei vedere le loro reazioni e, magari, scorgere una nota di commozione o fastidio, specie durante la coda strumentale, per non essere mai riusciti a sfiorare questi livelli: a mio avviso, e senza ombra di dubbio, la più grande, fulgida, trionfante composizione di metallo nero mai realizzata. Clarissima Mundi Lumina.
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