Segni.

Bobby Zimmermann morì in un incidente di moto nel 1964.

Robert Allen Zimmermann i segni li ha sempre saputi interpretare ed ha sempre saputo piegarli alle sue necessità. Così, quando a Roma (nel pieno della sua controversa conversione al Cristianesimo), gli capitò tra le mani il libro di Keith e Ken Zimmermann sulla vita di Ralph Barger dove si parlava della morte di Bobby (“Corri fiero. Vivi libero. Selvagge storie di bikers” di Ralph Barger, Keith Zimmerman e Kent Zimmerman. Edito in Italia da Dalai Editore), lui lesse quei nomi e capì subito che quello era un segno.

Era arrivato il momento di raccontare di quell’altro incidente di moto, quello che capitò a Bob Dylan il 29 luglio del 1966.

Era arrivato il momento di parlare della Trasfigurazione.

Robert sapeva che era un concetto difficile, ma sperava che qualcuno lo avesse potuto capire. Ben presto, però, Robert si accorse, guardando le espressioni basite e vaghe ed ascoltando le domande - come al solito sciocche e fuori luogo – dei giornalisti a cui cercò di spiegare queste cose, che era inutile e, dopo un po’, smise di provare a raccontare. Certo: non è che lui raccontasse le cose in modo così lineare.

Ma, in fondo, sappiamo tutti cosa accadde.

La mattina del 29 luglio 1966 Bob Dylan morì.

Quello che non sapete è che non fu un incidente: quella mattina Bob Dylan venne ucciso.

Sara, che lo seguiva in auto, capì subito cosa stava accadendo: Robert aveva deciso. Lei lo guardò negli occhi e furono d’accordo.

Poi contattarono di corsa un certo dottor Thaler, amico di amici comuni e si chiusero a casa sua per decidere il da farsi. Gli ci vollero 18 mesi per risolvere la situazione.

Era ormai da tempo che Robert ne aveva abbastanza di Bob. Era diventato ingombrante. Ma ancora più insopportabili erano i suoi fans.

Idioti.

Nessuno aveva capito niente. Giornalisti, discografici, fans, volevano il folksinger ribelle, il profeta con la chitarra, il nuovo Woody Guthrie, il menestrello di Duluth.

Duluth! Ma Bob era nato a New York, nel Greenwich Village nel 1962 (ok, lo so! Qualcuno dirà Minneapolis un paio d’anni prima, ma quello era solo un omonimo, per me) e Robert a Duluth c’era stato meno di sette anni, ma poi era cresciuto a Hibbing. Duluth neanche si ricordava come era fatta.

Non era stato facile creare Bob Dylan. Robert aveva fatto varie prove: Eltson Gunn, Robert Allyn, Robert Dylan (tanto per dire quelli conosciuti) e, alla fine, Bob gli era venuto proprio bene. Ed ora volevano ingabbiarlo, cucirgli addosso un ruolo, farne un prodotto di facile consumo e già con la scadenza sull’etichetta. Tutta colpa di Suze Rotolo e di Joan Baez (diciamocelo una volta per tutte: era stato soprattutto per far colpo su di loro che si era messo a fare anche il cantante di protesta, non era mai stato così stupido da prendere in considerazione il ruolo – ridicolo! – di nuovo “Woody Guthrie”!). Poi la presenza ingombrante di Joan aveva spinto le cose in una certa direzione. Ma lui era un poeta! Lui parlava d’altro e aveva bisogno di spazio e libertà, di altre musiche e di altre parole.

Ma la gente non capiva, non voleva capire. Odiavano la trilogia elettrica e non sapevano neanche perché.

Però Bob continuava ad essere un mito, una star. Tutti volevano un pezzo di Bob, tutti pretendevano di avere il diritto di mettere le mani nella sua vita. Gli stavano addosso, lo seguivano, lo spiavano.

Per dire, qualche giorno prima se li era trovati sul tetto di casa. Un paio di quei deficienti si erano arrampicati fin sul tetto di casa sua e ci stavano camminando sopra. Sara e i bambini si erano spaventati.

E Bob, questa situazione, non la reggeva più, era diventato ingestibile. Litigava con tutti: giornalisti, discografici, musicisti, il pubblico. E poi, la droga. Robert, in fondo, voleva solo una vita un po’ più tranquilla, ma Bob non glielo permetteva.

Così, quando Bob venne giù da quella moto, Robert capì che era arrivata la sua occasione. Ma non ti liberi di Bob Dylan così facilmente. Bisognava sostituirlo.

Ecco, qui verrebbe fuori la storia di Bobby Zimmermann e della Trasfigurazione. Ma, porca miseria, è davvero complicato, si va a finire nella Metafisica e nella Teologia. Insomma, io ho letto quello che dice Robert, ho cercato di capirlo, ma – confesso – ci ho capito poco.

Mi interessa di più la questione della seconda occasione. Perché è di questo che si tratta: di avere una seconda occasione. Morire e rinascere, rivivere dalle proprie ceneri. Con Dylan tutto diventa Mito.

E ci vollero 18 mesi per rinascere. Un lunghissimo silenzio, una lunga gestazione. La stampa di settore si inventò di tutto. Oggi sappiamo, grazie alla pubblicazione dei “Basement Tapes”, come costruirono il nuovo Dylan. Ma allora no, non lo sapevano. Solo silenzio. Un lungo, assordante silenzio. Ed alla fine venne fuori questo “John Wesley Harding”.

John figlio di un predicatore, che a 15 anni aveva già ucciso 5 persone, che si fece 17 anni di galera e, quando uscì divenne un uomo di legge (ma rimase un assassino ed un attaccabrighe) e che fu raggiunto dal proiettile col suo nome in un bar, mentre beveva con una puttana. Aveva 43 anni. Correva libero per la Prateria.

Come Bobby, il biker, venuto giù dalla sua moto nel’64, anche lui cercava la libertà correndo. Ed avrebbe voluto una seconda occasione.

E ci sarebbe poco altro da dire su questo disco se non fosse (d’altronde si trattava di Dylan) che stampa e pubblico ci si scatenarono sopra. E giù con la copertina che nascondeva i volti dei Beatles, e chi erano quei due bengalesi e quel giardiniere nella foto? Perché in b&n? E “cos’è ‘sta roba? Country!”. Country la musica della parte più conservatrice degli americani. No, è Root (!). E dov’è il folk-rock? Ve lo farà vedere Jimi l’anno dopo dov’è il rock in questo disco! E Robertson che dice che durante quei 18 mesi Bobby non aveva suonato nessuna di quelle canzoni (quando le aveva composte?), e perché proprio, solo, quei due musicisti lì? E – udite, udite – lui si chiamava John Wesley Hardin, Hardin! Senza la “g”. Cos’è sta “g”? God! John Wesley Hardin, JWH Jehowah….

E Robert sorrideva sornione, la sua Bibbia di Re Giacomo sulle gambe, intorno a lui il ’67 che diventava ’68. Il mondo girava impazzito e lui era lontano. Lui era tra quelli che avevano appiccato il fuoco ed ora, che le fiamme divampavano, lui si voltava da un’altra parte.

Eppure, dopo tanti anni che ascolto questo disco, dopo aver consumato il vinile, per me “John Wesley Harding” è ancora ammantato di mistero.

Ad esempio la religione. Dylan è sempre stato un autore “religioso”, un profeta intriso di ebraismo, ma qui c’è un profondo cristianesimo. Il cristianesimo della Bibbia di Re Giacomo, quella dove ci leggi “tette” e “donna mestrua”, quello dei predicatori pubblici, quello dei sermoni della domenica. Un cristianesimo da America Profonda, il cristianesimo di Bobby Zimmermann.

Ma la cosa che mi sconvolge ogni volta, ogni singola volta, che lo ascolto è la VOCE. Quella voce. Quella voce non è la sua, è diversa. Dicono “cantava così agli inizi”, citano il "Karen Wallace Tape o S.t. Paul tape" (persino i “John Bucklen Tapes” del’58), ma io vi ripeto: non è la sua voce.

E’ Bobby.

Robert fissa il giornalista e gli spiega che Bob se ne è andato, che lui, se potesse gli stringerebbe ancora la mano e proverebbe ad essergli amico, ora, ma non è più possibile. Ma quello è più stupito del fatto che lui non lo stia insultando o prendendo in giro, che per quello che sta ascoltando.

Sbaglia.

Dovrebbe ascoltarlo con più attenzione. Lui è Robert Zimmerman. Lui è l’uomo che ha ucciso Bob Dylan.

(L’intervista alla quale si è, molto liberamente, ispirata questa recensione è di Mikal Gilmore, dal titolo “Rolling stone intervista Bob Dylan”, pubblicata su Rolling Stone Magazine USA)

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