Elvis Costello disse: "questo è il più grande album che Dylan abbia mai composto".

Discutibile forse. Siamo invece assolutamente certi, dopo aver ascoltato attentamente questo disco, di avere tra le mani un album di straordinaria fattura. Certo non possiede le arringhe politiche del Dylan menestrello dei primi anni sessanta e nemmeno quell'alone lisergico, psichedelico, nevrotico e febbrile di "Higway 61 Revisited" o "Blonde on Blonde", ma "Time Out Of Mind" racchiude dentro di se l'anima e gli ideali di un artista arrivato ad un punto cruciale della proprio "pellegrinaggio": il tramonto delle aspettative e della vita.

Una carriera che sembra un'eternità. Dalle prime registrazioni liceali effettuate con mezzi primordiali nel lontano ‘58, Dylan è arrivato nel ‘97 con un disco che racchiude mirabilmente la sua immensa, sconfinata esperienza di canzoniere e poeta. C'è da dire che durante questi lunghi anni egli abbia vissuto, comprensibilmente anche dei periodi artisticamente bui. La crisi di metà anni ottanta sembrava decretare la morte del menestrello del Duluth; unanimemente la stampa specializzata lo dava per spacciato. Inoltre quell'enorme peso che gli gravava addosso, ossia il peso di essere stato colui che negli anni ‘60 e ‘70 mise a segno una decina di album unanimemente considerati tra i capolavori più grandi dell'arte popolare del secolo scorso, avrebbe steso anche l'artista più coriaceo e tenace. Egli invece, un passo alla volta, è rinato come la fenice dalle sue stesse ceneri ed.... eccoci qua a commentare un'artista completamente risorto. "Time Out Of Mind" ha sancito il ritorno di Mr. Zimmerman ai livelli di un tempo. E' blues d'annata quello che si respira in quest'album.

Dylan è sconsolato, disilluso ed amaro nelle sue fredde e disarmanti considerazioni.

Avvolgente e caldo nelle sonorità, l'album è scardinato da taglienti sentenze di disarmante malinconia e pessimismo. A partire dal blues cupo e verace di "Love Sick", che si trascina con passo stanco, passando attraverso lo sporco R&B di "Dirt Road Blues", che sembra venuto fuori dal miglior Johnson o Lee Hooker, e ancora attraverso le struggenti note di uno dei più intensi e maturi capolavori di Dylan: "Standing in the Doorway", sette muniti di vera emozione, impreziositi da una delle più carezzevoli melodie dell'intero repertorio, già si può comprende quasi completamente l'intrinseco valore del prodotto . Ma, ovviamente non è tutto qui. Nell'album figura una di quelle canzoni che indubbiamente colpiscono e lasciano il segno: "Not Dark Yet". L'emozione nell'ascoltare questo pezzo è indicibile. Colpisce in maniera straordinaria, se non sbalorditiva la cristallina ed intatta ispirazione del Nostro, totalmente inaspettata da un artista a detta di molti consumato, che ci porta a fare arditi paragoni, lontani nel tempo. Dal mio modesto punto di vista "Not Dark Yet" conserva ancora perfettamente integra la magia del Dylan più mistico, profondo ed introspettivo. Per capirci il Dylan di "Simple Twist a Fate", "Shelter From The Storm", "Tungled Up in Blue", ma addirittura di "Visions Of Johanna" e "Desolation Row". Non c'è più il "selvaggio suono di mercurio" dei febbrili, lisergici anni della giovinezza, bensì un suono profondo, maturo, sapiente e saggio, di chi ha visto fuggire veloce ed inesorabile il flusso inarrestabile della speranza e della vita. Il soffice, lento ed avvolgente blues, impreziosito da chitarre eteree e piangenti, fa da tappeto ad una voce autenticamente sofferta, emozionata, ispirata ed intrisa di sconfinata malinconia. Un flusso di coscienza sconvolgente, inarrestabile ed anche liberatorio che, con il suo assolo di chitarra finale, fa volare il nostro animo a latitudini finora sconosciute ed inesplorate. "Not Dark Yet" è una canzone "infinita", che rivive sempre ad ogni nuovo ascolto, che non smette mai di stupire ed emozionare, che si libra ogni volta in nuovi voli spirituali. E' veramente impossibile cercare di porre delle barriere all'infinita emozione che questo pezzo riesce a farci vivere.

La mistica magia di questa "canzone" è mirabilmente ripresa a fine album, nella splendida "Highlands". Un altro inarrestabile flusso di coscienza lungo oltre sedici intensi minuti. Un finale che mancava dai tempi di "Desolation Row" o "Sad Eyes Lady Of The Lowlands".

All'interno di questo album intriso di umori indicibili e mistici, c'è spazio anche per piccole gemme nascoste: la deliziosa "Make You Feel My Love", per esempio, che ci riporta con la mente alle dolci melodie di "It's All Over Now Baby Blue" o "It Ain't Me Babe", o la bluseggiante ed aspra "Cold Irons Bound", o ancora la malinconica, quasi struggente, "Tryin' To Get To Heaven".

E allora possiamo ben dire che Dylan riesce ancora a recitare la parte del musicista di strada ubriaco, il capo del circo sgangherato dai tendaggi rosso fuoco, il clown, il giocatore d'azzardo: con la banda di compari che da tempo immemorabile lo segue in tournée, si trascina, come il suo canto, per le strade sonore di New Orleans, su è giù per il Mississippi ed i treni merci del Midwest, ma soprattutto su e giù per i suoi fantasmi personali.

Uno dei più grandi album di Dylan, forse il più profondo e maturo.

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