L'Interzona sorge a Verona-Sud, quartiere ambiziosamente nominato Borgo-Roma perché, tracciando un'ideale linea retta lungo via Scuderlando, si potrebbe avere, con una certa generosità verso se stessi, la sensazione di decollare verso Sud e la Capitale, senza considerare i duecento chilometri di paesini sperduti - da Buttapietra a Nogara a Poggio Rusco e le sue ciminiere - gli Appennini eccetera.
Gli spazi occupati dall'associazione culturale sono quelli degli ex mercati generali della città, i cui resti svettano ancora nel quartiere, soprattutto nelle forme dell'enorme cupola circolare e delle vecchie celle frigorifere, sopravvissute tanto ai bombardamenti che all'abbandono, oltre che ai recenti tentativi di riqualificazione ambientale; che poi vorrebbe dire buttare giù tutto e ricostruire, dimenticare quello che c'era prima.
L'ambiente interno è accogliente, poche le presenze, non oltre la sessantina di persone, in gran parte ultratrentenni. Una bandiera rossa e nera alla sinistra del palco, poster di vecchi ospiti del centro a tappezzare le pareti ed il soffitto, un'atmosfera da industria dismessa che spinge qualcuno a chiudere gli occhi e ripensarsi a Berlino, nei primi anni '80 o pochi anni fa.
Bob Mould è preceduto da un giovane cantante, che, un po' intimorito, un po' forte di quella modestia che aiuta a non inimicarsi il pubblico, sembra quasi scusarsi per il compito che gli spetta, lui che sognava essere come Mould e che questa sera pare imitare Dylan o Neil Young.
Se la cava bene, lo spirito è quello del combat folker alla Billy Bragg, se non alla Massimo Bubbola dei tempi migliori o del Vasco Brondi dei peggiori, più che dei modelli citati, e anche se non riesce a cantarci una cover di "Ice Cold Ice", si fa applaudire lo stesso; forse sogna anche lui palchi diversi, così come via Scuderlando ambisce a portarci fino a Roma e gli architetti a demolire i vecchi mercati, ma questa serà può andar bene anche così.
Il set è acustico. Ad un certo punto compare un signore con giacca a vento, zuccotto di lana, barbetta ed occhiali, comincia a sistemare microfono e strumento e se ne va. Lo riconosco, lo dico, ma non vengo creduto.
Pochi minuti prima il signore ritorna, in maglietta, pantaloni di taglio sportivo e scarpe da ginnastica, si presenta e ci ringrazia di condividere quest'esperienza con lui.
Poi comincia a suonare e cantare senza sosta per oltre un'ora, un primo set di canzoni con la chitarra acustica, un secondo con una Fender elettrica. Lui solo, senza band o musicisti di supporto, illuminato da una luce ad occhio di bue che fa stagliare il suo profilo serafico sul buio fondo della sala.
Dice bene a dire che si tratta di un'esperienza, qualcosa che non si può raccontare né ridurre a cronaca: pezzi nuovi e pezzi di venticinque anni fa vengono centrifugati con una foga strumentale rara, accordi stratificati e riverberi che fanno da tappeto sonoro ad una voce ancora ispirata, piena di pathos, anello di congiunzione fra un passato di hardcore melodico ed un presente da cantautore rock.
Le emozioni maggiori - ma quasi tutti i presenti sono alla ricerca di quel preciso effetto nostalgia - sono per i pezzi degli anni '80, da "Hardly Gettin Over It" in versione acustica, passando per "I Apologize" e l'acclamata "Something I Learn Today", rese con la schiettezza e la sintesi espressiva di un tempo.
Bob, in effetti, non è invecchiato per nulla. Meno dei suoi ammiratori nostalgici, meno di quanto io sarei probabilmente invecchiato al posto suo, meno delle immagini di certi miti morti giovani. Non c'è in lui alcun atteggiamento da reduce, alcun compiacimento, soltanto lo spirito di un tempo che continua e si rivela sempre attuale, e sempre vitale, perché - lo si capisce vedendolo di persona - autentico.
Esce e torna per il bis, strizzando il microfono per farci vedere quanto ci ha urlato dentro.
E quando attacca con "Make No Difference At All", che è la canzone che mi ha portato qui, realizzo che davvero non fa differenza: chiudi gli occhi e su queste note puoi essere a Minneapolis come a Berlino, a Roma come a Verona o nella tua stanza, nell'85 o nel '92, nel 2009 o nel 2001; senti il respiro di chi lavorava ai mercati generali e uscendo dalle celle forse guardava verso il sud di via Scuderlando come una fuga verso pianure infinte, ignorando le montagne che, in fondo in fondo, chiudono il paesaggio; vedi l'architetto chino a disegnare un futuro possibile, gli abitanti del quartiere che passano infreddoliti, la Chiesa neogotica di fronte vuota e spenta, come solo una Chiesa può essere vuota e spenta un sabato sera, la pizzeria di fronte dove concludere la serata, e poi la macchina, nuove strade, nuove luci, differenti quartieri, il deposito dei bus dietro la stazione, viali alberati.
Guardandoti attorno, pensi che tutto sia circolare come la cupola dei mercati, e che tutto vada, si fermi, ritorni, uguale e sempre diverso, come un accordo e un riverbero senza fine.
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