Questa non è una recensione.
E' un appello accorato, come di questi tempi manco un elettore (di ciò che resta) dell'italico Partito Democratico ne farebbe uno. Non leggetela, non perdete tempo. Piuttosto, scaricate questo disco. Fatto? Lui non se ne avrà troppo a male. E' stato pur sempre campione di vendite nelle classifiche di genere per oltre un quinquennio - cinquantuno 45 giri in Top 40 R&B, un epocale primo 33 giri che nell'AD 1961, se si deve far fede alle note di copertina originali, vendette qualcosa come quattordici milioni di copie. E oggi, per quanto la carta d'identità dica che andiamo verso gli ottanta - Robert Calvin Bland, Rosemark, Tennessee, classe 1930 - scommetterei che continua a esibirsi dal vivo riempendo i locali che lo ospitano, evento per cui nei '60 a questo maestro di seduzione, nonostante un fisico non proprio apollineo, le giovani e adoranti ragazze di colore erano solite lanciare sul palco dell'inumidito intimo. Oppure, forse meglio, cercatelo e fatelo vostro. E' in catalogo. Insomma, che lo possediate in qualche recondito angolo del vostro hard-disk come spazio fisico di poche decine di megabytes o come tondo oggettino in custodia di plexiglas, poco importa. Ascoltatelo. Questo importa. Ascoltato? Bene, adesso so che mi siete davvero amici.
Ma quanti sarete? Il problema sta lì. Che se Don Lisander Manzoni si rivolgeva ironizzando ai suoi "venticinque lettori", l'umile scriba di queste righe quanti potrà contarne? Senza ironia, purtroppo, molti meno. E se anche così non fosse, sempre troppo pochi per far sì che, nonostante quanto appena affermato, un simile interprete esca alla buon'ora dal limbo degli artisti afroamericani noti agli afroamericani. Non si deve essere cultori di black music per conoscere Ray Charles o Sam Cooke o Otis Redding o Marvin Gaye. La musica di Bobby Bland, pur essendo della stessa lega dei sunnominati, è invece affare per una ristretta, troppo ristretta cerchia di happy chosen few,. Nel frattempo, l'ho detta, la parola magica. Interprete. Perché questo è stato ed è Bobby il Triste. Un'interprete. Genere: gospel soul errebì. Nulla di più e nulla di meno. Non un virtuoso di qualche strumento di cui non conobbe neanche i rudimenti, né mai scrisse di suo pugno un solo brano tra quelli che cantò. Resta una granulosa voce baritonale in grado di schiantarti il cuore e di far diventare oro tutto ciò con cui venne in contatto. Non so a voi, ma a me è bastato.
Chiariamoci subito. Vi sto proponendo di ascoltare un disco "minore" di un artista "minore". Dell'artista minore e di quanto questa affermazione equivalga a una bestemmia, già abbiamo detto. Veniamo al perché di "His California Album". Gli voglio un bene dell'anima. Di più, faccio fatica a pensare ad un disco cui voglia altrettanto bene tra le decine di migliaia che sono passati negli anni sul mio stereo. Certo, il sopra citato million-seller, dal nome di "Two steps from the blues", può a buon diritto definirsi disco epocale in quanto anello di congiunzione tra il gospel primevo che profuma ancora di spiritual, il blues e il soul che si affaccia scanzonato sugli anni '60, uscendo dalle chiese per entrare nei club prima e nelle classifiche poi. Quello l'oggetto storicamente imprescindibile per fare la conoscenza di questo signore. Ma se devo pensare ad un disco perfetto per far innamorare qualcuno a questo genere di cose, il suo Album Californiano, per quel che può valere, è il mio consiglio.
Esce nel 1973, quando ormai Bobby Bland è piuttosto out there. Lasciato il suo mentore Joe Scott, l'uomo col quale aveva per quasi un decennio costruito il suo successo, da un quinquennio abbondante ha iniziato un lento ma inesorabile declino. Finito su un binario pressochè morto il treno sixties del soul tradizionale, il nostro uomo non si è messo al passo coi tempi. Nessuna svolta a sinistra verso l'ormai imperante funk-rock del dopo Woodstock, men che meno a destra nei territori più levigati del Philly-sound o, peggio, in quelli più banalmente remunerativi della nascente disco. Bobby Bland decide pertanto di inaugurare la sua seconda giovinezza artistica, coincidente con un nuovo rapporto discografico, facendo quel che ha sempre fatto: un disco di errebì. Anzi, lo fece pure con l'orchestra. Mossa commercialmente suicida se mai ce ne poteva essere una. Voi fate come fece lui. Fregatevene.
Sono dieci canzoni che riscrivono la storia interpretativa del genere. Dieci classici assoluti che, per quanto il nostro eroe appaia in copertina vestito da magnaccia in libera uscita da una pellicola blaxpoitation, sono il massimo in termini di eleganza e classe, tanto da non riuscire a pensare ad altro che ad un cantante in smoking. Un Bryan Ferry nero, però con quella voce, gentile e al contempo rasposa come mai era stata prima, splendidamente in simbiosi con un gruppo di musicisti che lo accompagnano in modo mirabile e con arrangiamenti orchestrali che ti fanno scorrere più volte le note di copertina alla ricerca del nome, assente, di Isaac Hayes. Come non pensare al Black Moses improvvisamente folgorato dal blues ascoltando il tremolante incedere del brano d'apertura "This time I'm gone for good", laddove Bobby (mai così) ‘Blue' si esprime in un canto che scartavetra l'anima? Questo il comune denominatore dell'album, un R&B vividamente elettrico in cui si amalgamano organi pregni, fiati terrigni ed archi dolenti. Il tutto impagabilmente legato dai due strumenti più importanti che suonano in questo disco: le corde vocali di mr. Bland, sempre perfettamente a loro agio quando gli si prospettino intense blues-ballad del calibro di "It's not the spotlight" , "(If loving you is wrong) I don't want to be right", "Help me trough the day", la meravigliosa "Friday, the 13th child", la rockeggiante e strepitosa (B.B. King ucciderebbe per avere nel proprio carnet una simile meraviglia) chiusura di "I've got to use my imagination". Ma anche nella dondolante allure di "Up and down world", come nel passo trottante di "The right place at the right time" o di "Where my baby went" , Bobby pare prenderci per mano e dirci che che lui, con quella voce, può fare davvero ciò che vuole. E se non ci fossimo ancora convinti ci basterebbe ascoltare la rendition qui presente di un classicone quale "Goin' down slow". Il dolente blues di Jimmy Oden, sorta di My way della musica nera che Howlin' Wolf strapazzò alla sua cruda maniera, viene qui rivisitato con somma eleganza dall'uomo di Rosemark, che, complice il crescendo rockista di una elettrica splendidamente sugli scudi, di ottoni grassi, di un organo alla Al Kooper e di cori seducenti, invece di un calice d'assenzio pare bere una coppa di spumante.
Con tanti saluti al successo. E chissenefrega. Avrò qualche amico in più?
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