C'era un brano degli Enigma del 1993, "I Love You...I'll Kill You....(But I'll Love You Forever)".
La vita in simbiosi di Bobby Brown e Whitney Houston può essere catturata in questo frangente. I due si sono amati, picchiati, hanno procreato, fatto reality autocelebrativi, drogati, separati, finché una non s'è tolta la vita e l'altro, ingrassato (quasi) oltremodo, si è buttato nel circuito nostalgia distribuendo date laddove l'America lo ama di più giusto per sbarcare il lunario. Mi son costretto a guardare qualcosa: patetico. Tant'è.
Non critico l'uomo: perdere moglie e figlia (Bobbi Kristina è mancata un paio d'anni fa a soli 22 anni dopo aver vegetato alcuni mesi in ospedale, causa overdose, ndr) manderebbe fuori di testa chiunque. Critico il pregresso ed il sentiero chiaro, nitido, che si è creato per distruggere il proprio talento oltre che l'immagine.
Il guaio è che mi piace. Il suo mixare pop, rap, dance, hip hop, new-jack swing e soul mi ha sempre mandato in brodo di giuggiole.
Questo album, datato 1992, è il crocevia perfetto che si frappone tra la consacrazione ottenuta nel 1988 con "Don't Be Cruel" (una ventina di milioni di copie in tutto il mondo) ed il flop del pur presentabile e ben arrangiato "Forever" del 1997. Il resto è noia, arresti, ore socialmente utili, capricci, eccessiva ebbrezza. L'ultimo album in studio, "The Masterpiece" (2012) è passato pressoché inosservato.
"Bobby" è un album che ai tempi soddisfò i fans, consegnando all'artista l'egida forse esagerata di 'nuovo Stevie Wonder'.
Prodotto da Brown stesso e da chi, ai tempi, gravitava anche intorno a Michael Jackson, l'album offre un ventaglio a tutto tondo dei talenti dell'artista. La disinvoltura con cui passa da ritmi incalzanti ("Humpin' Around", "Get Away"), spensieratezza ("Good Enough", "I'm Your Friend") a lenti mai banali seppur troppo rispecchiati in sé stessi ("'Til The End Of Time", "Pretty Little Girl", "College Girl") passando per il delizioso duetto con la consorte ("Something In Common") è colonna portante dell'intero lavoro. L'ascoltatore rischia di annoiarsi per la lunghezza esasperata dei brani, intorno ai 6 minuti, ma è dazio accettabile.
Una peculiarità ruota intorno alla traccia "Two Can Play That Game". Al tempo il brano, estratto come singolo, ebbe un discreto successo negli Usa, niente di che. A tardo 1994 venne remixato e riarrangiato dal nostro Joe T Vannelli e diventò un classico, un sempreverde del panorama house europeo. Tanto da fare da apripista ad un remix-album di matrice eruopea, avente lo stesso titolo.
Tornando a "Bobby", Il tour di riferimento tenne impegnato l'artista per tutto il 1992 e buona parte dell'anno successivo.
A distanza di 26 anni mi accorgo che, a differenza di altri artisti, Brown mi rimanda ai miei 15 anni con disinvoltura. Con gli anni, mi permeo in maniera diversa con il materiale che mi piace, che asolto. Bobby Brown fa eccezione. Il suo sound è sempreverde. E' qualcosa che nel tempo, purtroppo, si è perso. In quegli anni non c'era parsimonia, e le ore spese a riarrangiare un brano non erano mai troppe. Oggi c'è frenesia, l'industria ti toglie il respiro, l'offerta è troppo ampia. E per The King Of Stage, come amava definirsi nel periodo d'oro, non c'è più spazio.
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