Forse qualcuno non lo sa, ma in quegli anni lì c’era una guerra.
E una corsa anche, a cercare le armi con cui combatterla.
E, a un certo punto, il Caso ha voluto, un’arma sono stati gli scacchi.
La barba incolta, quella delle ultime foto, sembra quasi quella di Saddam. Solo che è bianca. Un’icona che invecchia. Come sarebbe stato il Che se non fosse morto in Bolivia, o Marilyn, oggi. Lui così. Echissenefrega. Come sempre.
Nessuno gli ha insegnato a giocare. Si trova tra le mani una scacchiera. Il Mito dice arrivata per caso, quasi caduta dal cielo. E lui che prende il libretto di istruzioni, come fosse una lavastoviglie, una di quelle che in quegli anni lì, chi ce l’aveva, era ricco.
Oggi, a giocare a scacchi, ti insegnano. Ci sono i libri. Gli insegnanti, russi di solito, schegge impazzite di un mondo in cui una guerra è finita. E soprattutto il computer. Ti metti lì, ti mettono lì, sotto a lavorare, dimentica il resto, gli amici, le ragazze, mi piacciono i soldatini, non ci sono nemmeno più, in cambio un videogioco che sembra che sei il soldato Ryan. Dimentica. Ti metti, studi, la memoria ce l’hai, buoni consigli pure. In poco tempo impari. In quegli anni lì no. Giocavi a scacchi se c’avevi il dono. Oppure se eri russo, è chiaro. Ma se non lo eri dovevi avere il Dono. E nemmeno sapevi cosa fosse, questo dono. Nemmeno spiegarlo.
La Gazzetta. Visto. Repubblica, il Corriere. Tutti che ti chiedono. Una vecchia storia che si racconta di nuovo. Lui non ci fa nemmeno caso. Quarantadue anni fa schioccavi le dita e il mondo ne parlava. Le telecamere troppo vicine, gli ipnotizzatori. Forse il primo eroe multimediale.
E poi vent’anni di mistero. Che nessuno sa dove sia stato. Né lo saprà mai. Via, ad inseguire una variante. Che nessuno vede, che nessuno capisce. Che se fosse la Axh2 della prima del Match, o invece una delle mille genialità da tutti studiate, viste, commentate, assaporate, non lo si saprà mai.
E il ritorno. Con anche qualche delusione. Non era più - su questo non c’è dubbio - il più forte. E le mille, centomila idiozie con cui ha riempito ancora qualche pagina.
Le mille, centomila mattane di uno che ha avuto il mondo ai suoi piedi. Il Mondo, niente di meno. Tutti a guardarlo. E lui che lo sapeva. Che lo coccolava, il mondo. Che lo maltrattava, che gli arruffava il pelo. E poi lo ripigliava in mano, strizzava l’occhio. Scherzavo, tranquilli, ci penso io.
La barba sembra quella di Saddam, solo più bianca. La faccia si fa fatica a ricordare che sia la sua. La testa matta quella no, non c’è dubbio. E tutti ad aspettare un segno, un barlume, una scintilla. Come ai vecchi tempi, quando tutto era diverso. Quando si riusciva a restare in bilico. Tra follia e genialità. Dando il massimo in ognuno dei due campi. Senza mediazioni. Il massimo della pazzia, il massimo della genialità. E mai un giorno grigio. Mai una roba mediocre. Mai la quotidianità.
Sette anni fa, il 18 gennaio 2008, a Reijkiavik, si è spento il più geniale e il più stupido degli scacchisti. Degli uomini, forse.
Forse.
Forse invece è solo sparito. Forse, da qualche parte, quella barba bianca gira ancora, e gioca una partita le cui regole sfuggono ai più. Ma non a lui. Lui il libretto di istruzioni ce l’ha. L’ha letto e mandato a mente. Un giorno forse capiremo anche noi.
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