Io li capisco quelli che passeggiano. Quelli che passeggiano per affrontare il dolore, senza meta, un passo dopo l’altro. Sembra una cosa da film melodrammatici di merda, ma spesso funziona davvero così: camminare finché l’incazzatura, il dolore, la tristezza, i pensieri negativi evaporano. Quando si è in queste condizioni, fare altro è impossibile, starsene fermi nemmeno a pensarci, ed allora conviene camminare.
Si può camminare, oppure si può ascoltare “Lion Devours the Sun”, l’effetto terapeutico è più o meno lo stesso: catartico. Il secondo album di Boduf Songs è forse il migliore, ed anche se non lo fosse, di sicuro è quello più eloquente riguardo a ciò che rappresenta la creatura di Matthew Sweet: un braccio arcuato e deforme che con il gomito sfiora (ma solo per coincidenza) l’universo gotico, e che affonda il pugno nell’abisso del cantautorato più minimalista che possiamo concepire. Un’espressione di sentimenti che, almeno inizialmente, non ammetteva variazioni oltre a quelle concesse da una chitarra appena sfiorata, una voce sussurrata e qualche residuo sonoro dimenticato dietro alle canzoni, o aggiunto in sede di post-produzione. La formula, pur non perdendo i contorni cupi ed alienanti degli esordi, si andrà progressivamente a contaminare con elementi mutuati dai mondi dell’elettronica e del rock, ma ai tempi di “Lion Devours the Sun” (correva l’anno 2006), l’arte di questo schivo figuro poteva considerasi “pura”.
La similitudine è brutta, ma può avere un’utilità: la musica di Boduf Songs sta all’empireo dei cantautori come il nome di Burzum sta a quello del black-metal. Gli ascoltatori più aperti di mente riscontreranno delle analogie: la comune visione artistica votata morbosamente al verbo minimalista, l’ossessiva e compulsiva tendenza a reiterare temi, la cappa di isolamento ed asfissiante solitudine che aleggia intorno ai brani, anche se poi la fuga dal mondo del cantautore inglese è per molti aspetti uno sforzo di introspezione antitetico a quello compiuto dal musicista norvegese: senso di inadeguatezza, celebrazione del fallimento, desiderio di annullamento, nel buio della notte, nel chiuso della propria dimora, luogo (meta)fisico dove si compie il rito (di auto-flagellazione?, di purificazione?). La registrazione di queste sessioni avviene in assoluta solitudine e con mezzi improvvisati: un microfono settato sugli strumenti al fine di carpire l’eco, le vibrazioni del suono, prima ancora che la meccanica. Non senza una certa ironia – macabra – nei confronti di tutto quello che sta al di là delle quattro pareti. E senza ovviamente risparmiare se stessi.
Le immagini che vengono in mente sono tremende istantanee, squallidi interni di case disabitate o di manicomi abbandonati, strutture fatiscenti ove a regnare è l’eco dei lamenti dei malati di mente, la polvere, il brulicare di insetti repellenti che strisciano indisturbati entro le fessure delle pareti sgretolate, sui pavimenti ricoperti da ciottoli. Oppure a materializzarsi sono i semplici e spietati contorni della solitudine, truci paesaggi interiori, architetture dell’orrido fatte di ricordi, rimorsi e pentimenti che ristagnano e divengono materia (“ho costruito una casa con i miei errori” recita uno dei motti chiave di questo lavoro).
La musica: le ballate di Sweet si compongono di arpeggi elementari, spesso ripetuti molte volte, e per molto tempo, a volte addirittura in progressiva decelerazione (in un mondo in cui sono i crescendo ad andare per la maggiore), come a voler descrivere una sensazione di crescente spossatezza, ma senza mai scivolare nell’artificio, nell’ostentazione. Armonie circolari che affiorano dalle tenebre, per poi lentamente immergervisi di nuovo, nelle tenebre o fra le nebbie dense e basse dei droni e i fruscii di una registrazione rudimentale. Se i più maliziosi potranno sostenere che questa è musica che possono suonare tutti, l’apparente semplicità della proposta nasconde invece un vero e proprio lavoro di ricerca, laddove Sweet riesce a mantenere l’attenzione su di sé per tutto il tempo, centellinando le poche risorse del suo mondo espressivo, lavorando di sottrazione, concentrandosi sull’atmosfera, imponendosi infine un’auto-disciplina ed una severità che sono l’essenza e la ragion d'essere della sua cifra stilistica.
L’iniziale “Lord of the Flies” ben spiega il modus operandi con il quale l’intero album si sviluppa: le tre/quattro note dell’arpeggio iniziale ripetute freneticamente sono una trivella metafisica votata a scavare nell’inconscio (e il Leonard Cohen di “Avalanche” ne sa qualcosa), ma ben presto il vorticare ipnotico delle corde verrà animato da improvvise aperture, ulteriori note che non spezzano il flusso, ma si aggiungono ampliando ed arricchendo la tavolozza di colori (tonalità fra il grigio e il nero) a disposizione di Sweet, che con il suo sibilo si modella perfettamente alle evoluzioni/involuzioni dei suoi componimenti, come se i sospiri di quella voce e la mano che scivola sulle corde della chitarra fossero una cosa sola, il medesimo ectoplasma di malessere e disagio. “Two Across the South”, che è la naturale prosecuzione del brano precedente, ne riprende pedissequamente gli umori fatalistici, ma se possibile lo fa in modo leggermente diverso (tutto, in “Lion Devours the Sun”, è “leggermente diverso”): questa volta è un imponente franare di note che conserva una sorta di maestosità nell’austerità (sfumature che hanno dell’assurdo).
È logico che in questi casi, assomigliandosi molto i brani fra di loro, cimentarsi in un track by track è tanto noioso per chi legge quanto per chi scrive. Ma come non citare l’alienante coda ambientale di “That Angel was Pretty Lame”?, ove frequenze distorte e gelide voci che sembrano provenire da una radio scassata si stemperano delineando scenari da fine del mondo. O la funerea “Green Lion Devours the Sun, Blood Descends to Earth”?, slow-folk pervicacemente orientato verso il proprio annullamento, sospinto da lenti rintocchi (una mano che batte il tempo sulla cassa armonica della chitarra?) ed accarezzato nel finale dai lamenti di una chitarra elettrica in una delle sue rare apparizioni: l’apice dell’invenzione di Sweet ed al tempo stesso il limite oltre il quale la sua musica non potrebbe essere più definita cantautorato. O, infine, come tacere della seconda metà della claudicante “Bell of Harness” (quasi dieci minuti in tutto)?, sbloccata, dopo gli inizi incespicanti, dal fluire di una spirale di note che finisce per contemplare i primi miraggi di un qualcosa che non è quel nero/buio/nerissimo che è stato enunciato fino ad un momento prima: i primi momenti di distensione, forse di speranza, ed anche gli ultimi, visto che in questo flusso purgativo l’opera vede il suo commiato.
Camminare, si diceva, come nei film melodrammatici di merda…o ascoltare “The Lion Devours the Sun”.
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