Partiti nelle vesti di un quartetto doom-metal, dal quale mutuano la stasi sonora e una pesantezza indigesta, i tre polistrumentisti tedeschi che compongono i Bohren and Der Club Of Gore virano, dal secondo album “Gore Motel”, verso un sound unico e tutto strumentale, che assembra oscure atmosfere ambientali e rintocchi ossessivi di noir-jazz.
Dopo aver sfornato capolavori come “Midnight Radio” e “Sunset Mission”, il gruppo passa una fase di transizione con “Black Earth”, in cui viene messa a punto una formula ancora più pachidermica e stagnante rispetto alle opere antecedenti.
Questa formula verrà poi perfezionata e consacrata nei sessanta minuti di questo catalettico “Geisterfaust”, in cui, oltre al classico assetto di tastiere, batteria, basso e sassofono, si aggiungono anche vibrafono e tuba, a creare un sound, se possibile, ancora più monolitico.
Ciò che probabilmente rende unica questa musica è la concezione della dimensione temporale e l’atmosfera di sospensione che ne deriva.
I tempi sono infatti sempre dilatati, si spandono come macchie scure di olio denso: lo sfarfallare della batteria fantasma non funge, come tradizionalmente dovrebbe, da spina dorsale del sound, ma, piuttosto, accompagna farfugliante gli altri strumenti, tintinnando in sordina; a suggerire forse che il tempo è un concetto relativo… e che tutto dipende da come viene vissuto. Scopo di questa musica è quello di espanderlo il più possibile.
Il basso è prominente, vertebra molle di un sound quasi invertebrato.Insieme alle tastiere, gira a vuoto su sé stesso, pigramente, antitesi incarnata del concetto di progressione, in un ciclo in cui il serpente si mangia la coda da solo, nel nido in cui ogni mezzogiorno è comunque e sempre mezzanotte.
La tastiera ci culla gentile con minime variazioni, pennellate di ideogrammi essenziali, e così il vibrafono.
L’atmosfera è notturna, corrotta dall’oppio e dall’assenzio, e rari sono i raggi di luce che riescono a forare la cortina nebbiosa che costituisce la materia sonora, qualcosa di palpabilmente narcotico e irreale.
E’ un’eterna notte che la luce del giorno non riesce a sciogliere, mille dubbi che la veglia non può in alcun modo dissipare.
Nei venti e passa minuti di Zeigefinger, un loop ipnotico in cui vorticano senza posa petali di sintetizzatori rarefatti ci ammanta.
Il gorgo s’avvita in un girotondo: vuole risucchiarci, spingerci a compiere l’ascetico salto verso l’alto in direzione dei regni metafisici.
Dobbiamo rischiare e abbandonarci?
Farlo comporta un tuffo nel vuoto, un’esplorazione nei meandri di ciò che è ignoto.
Queste note che si schiudono come ninfee in un silenzio assordante sono lì a ricordarcelo: col loro incedere funereo, vibrano nel vuoto della quiete notturna, mentre i denti della claustrofobia stringono intorno al cuore l’ennesimo giro di filo spinato. .
La speranza è un basso languido e suadente, infagottato in un’atmosfera felpata e attutita, che borbotta e barcolla, impantanato nel petrolio della paranoia: la paura di precipitare, di venire ingollati dagli intestini annodati dell’abisso sotto di noi è sempre presente, e l’aria si fa densa e irrespirabile.
In queste paludi eternamente avvolte dalla nebbia, l’atmosfera è vespertina: vibra di ammonimento, sul fondo del quale pulsano in rilievo le arterie del sogno.
Il tempo è agonizzante, elasticizzato: si protrae girando su sé stesso con implacabile lentezza.
Un rollio nevrotico e appena percettibile di batteria jazzata scandisce le ore notturne; e, ingobbito sotto un lampione sui marciapiedi sciacquati dalla pioggia, fa capolino il fantasma del vecchio Bob, musicato da Angelo Badalamenti.
La sua sagoma, nella foschia, pulsa di luce rossa, gonfiandosi e sgonfiandosi agli sbadigli del basso.
In Daumen, le note sfrecciano nel buio come stelle cadenti; poi si spengono, lasciando come scia un’eco che rimbalza nelle profondità di uno spazio congelato.
Agghiacciati da ciò che c’è sotto e estasiati da ciò che c’è sopra, procediamo cauti, un passo incerto e traballante dopo l’altro, coi piedi radenti sul filo della corda, che tremola e oscilla al soffio di un vibrafono allucinato.
A guardare in basso, nel buio del baratro, siamo ciechi, terrorizzati dagli oscuri fantasmi della nostra coscienza, che strisciano infidi sotto la coltre nera di una cupissima dark-ambient.
Ma l’oscurità non è solo sotto di noi: è anche dentro.
Prende infatti allo stomaco Ringfinger; è la cecità primeva che conduce a tutte le altre. Essa ristagna e preme per sfondare la pulsante e sottile membrana del limite e trovare una via d’uscita.
Sarà lei la molla che ci farà compiere il salto?
Ma ci accorgiamo che anche guardando in alto siamo ciechi: difatti, la luce policromatica di una cattedrale gotica ci abbaglia riversandosi scrosciante e sinuosa nelle nostre pupille.
Essa incarna l’armonia apollinea, coi cori monosillabi, punto di incontro tra i rituali oscuri dei canti gregoriani e le esalazioni del purgatorio di lamiere di “Heartache” dei Jesu.
E noi procediamo così: i piedi impaludati nelle paure ancestrali del subconscio, la testa febbricitante di sogni… ondeggiamo da una parte all’altra come lancette di un orologio a muro dalla batteria squagliata; come piante subacquee con radici nell’abisso e il capo volto al bagliore di stelle rarefatte… al brillio di ciò che non ha ancora un nome.
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