Anno domini 1986: dopo due album che riuscirono a vender bene, ma non quanto il giovane Jon Bon Jovi né la casa discografica speravano, iniziava a sentirsi nell'aria il bisogno del grande salto, un album in grado di sbancare i botteghini e lanciare definitivamente la compagine del New Jersey nell'olimpo del rock.
Un grande salto che puntualmente arrivò con l'album qui recensito, vendendo in totale 33 milioni di copie in tutto il mondo e rimanendo per ben 8 settimane al primo posto della classifica Billboard 200 (record assoluto per una band Hard Rock).
E il motivo di questo enorme successo commerciale si deve al fatto che le canzoni incluse nell'album sono di una qualità semplicemente superiore rispetto alla stragrande maggioranza degli album dello stesso genere che stavano uscendo in quel periodo.
Ma procediamo con ordine: il disco si apre con l'esplosiva "Let It Rock", impreziosita da un refrain coinvolgente e da un assolo perfetto di Sambora nel mezzo.
Seguono poi due tra i maggiori anthem di questo disco ovvero "You Give Love A bad Name" e "Livin' On A Prayer", due canzoni che nel corso degli ultimi 30 anni anche i sassi avranno sentito almeno una volta. La cosa che più sbalordisce di queste due canzoni è che non presentano nessun punto debole, dall'espressiva voce di Jon agli ottimi ritornelli al sapiente uso del talk box nell'intro della seconda.
Si tratta infatti di due canzoni che non solo andranno, negli anni successivi, a rappresentare egregiamente l'album e la band, ma anche una decade intera, almeno per quanto riguarda la musica rock.
La successiva "Social Disease" non poteva che risultare sottotono rispetto alle due precedenti canzoni, per quanto si tratti di un pezzo ben congegnato e avvincente, ma praticamente qualsiasi canzone dell'abum avrebbe fatto la stessa figura se posizionata dopo due hit immortali come le precedenti, ad eccezione forse della successiva "Wanted Dead Or Alive", altro eterno cavallo di battaglia dei cinque. La struttura della canzone, una power ballad dai forti echi country, ben si sposa con il testo che narra di un moderno cowboy in sella al suo "cavallo d'acciaio".Semplicemente meravigliosa.
L'album prosegue quindi con la dinamitarda "Raise Your Hands", brano che diventerà un appuntamento fisso nelle setlist dal vivo del gruppo, grazie anche al refrain ideale nel quale vengono più volte ripetuti i nomi di città sparse per il mondo, da New York a Chicago a Tokyo.
"Without Love" e "I'd Die Yor You" sono un altro esempio lampante di cosa volesse dire scrivere del gran rock a metà degli anni '80. Più melodica e tipicamente Aor la prima, con un bel ritornello di facile presa e un ottimo tappeto di tastiere a firma David Bryan, più veloce e "pestata" la seconda, si tratta in entrambi i casi di due canzoni che avrebbero forse meritato maggior riguardo da parte della band nei tour successivi, ma questo nulla va a togliere a due composizioni veramente ottime.
Con la successiva "Never Say Goodbye" si arriva alla tipica ballad Bon Jovi-ana, coinvolgente e melensa al punto giusto da non risultare stucchevole.
La conclusiva "Wild In The Streets" è, a detta del sottoscritto, leggermente sottotono rispetto al resto dell'album, anche se bisogna intendere questo concetto relativamente al suddetto album che è costituito da pezzi di pura classe ed energia rock. Facile quindi capire che, all'interno di un qualsiasi album cosiddetto "normale" sarebbe risaltata come punta di diamante.
In conclusiva, se ancora non si fosse capito dalla recensione, siamo davanti ad un album perfetto che ha passato in modo superlativo la prova del tempo e che, anche se in tutto e per tutto figlio del suo tempo, se venisse pubblicato oggi meriterebbe comunque la nomea di capolavoro.
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