Ci vuole classe per raccontare la miseria, facendo ridere e piangere insieme. Ci vuole coraggio per sputare in faccia alla borghesia, canzonarla in questo modo. Ci vuole crudeltà per bagnare nel sangue una storia che è già dolorosa di per sé.
Per una volta, quando i media generalisti dicono che questo è il film dell'anno, bisogna dargli credito. Il sentimento che suscita è invidia. Invidia per un'arte cinematografica che sa ancora guardare agli ultimi senza essere esercizio di stile, senza quella puzza sotto il naso di europei e americani che anche quando parlano della merda te la vendono come fosse cioccolato.
Invidia per una visione che parla delle cose del mondo, prima che di se stessa e della sua arte. Una finestra aperta sulla realtà, ma da una specola isolata, quasi fuori dal tempo, che permette di vedere le cose come stanno davvero. Le degenerazioni della borghesia non le ho mai viste così ben raccontate, l'allegria dei poveri che non hanno nulla da perdere l'ho vista invece in Kore'eda, quello sì, ma mai, mai in opere occidentali recenti.
Verrebbe da dire che il cineasta sudcoreano applichi i dettami della filosofia orientale, per illuminare il suo sguardo sulle contraddizioni quotidiane della società (sua e nostra), sulla guerra per sopravvivere (o meglio, per vivere con dignità) che perdura nell'indifferenza dei più. Un saggio senza idee Bong Joon-ho, senza preconcetti (questa l'ho presa da Jullien) che può dunque raccontare la verità. Noi occidentali siamo troppo immersi nella società dei consumi per vederci da fuori, ne siamo assuefatti e non cogliamo le sue perversioni. Non cogliamo le nostre fragilità assurde.
Non voglio sottrarvi nessuna emozione dalla visione del film, dico soltanto che qui realismo e stilizzazione coesistono miracolosamente, senza falsificarsi. C'è l'indagine sociale e ci sono i ritmi della commedia, il divertimento e il disgusto, lo slapstick da fumetto manga e la discesa agli inferi che a volte l'essere umano può accogliere come “male minore”.
E c'è la musica e ci sono le immagini che paiono dipinti, tra selve di cavi telefonici e scalinate che sembrano voragini. C'è il diluvio universale che punisce esclusivamente i derelitti, mentre per i ricchi è solo il dispiacere di un weekend in campeggio da annullare. C'è soprattutto un'intonazione che mette sempre in primo piano i concetti importanti, la lettura filosofica e sociale dei fatti, ma senza mai appesantire il passo svelto del racconto, che funziona bene anche per le categorie più superficiali del cinema, come l'intrattenimento, il brivido, la sorpresa e l'intreccio.
Un cinema che raccontando il mondo vorrebbe renderlo un posto migliore. Un cinema che è gesto rivoluzionario, tentativo di scardinare il male quotidiano. Ridendoci su, non dando troppo peso alla tragedia, eppure sanzionando nel finale un nichilismo che più nero non si può. “Se non hai piani, nulla può andare storto”. Un cinema che ha l'odore (nauseabondo per i borghesi) dei tanti che si arrabattano, costretti magari a essere più crudeli degli ignari signori nelle loro case monumentali. Una guerra tra poveri va in scena nello scantinato della società, che non ha pietà per chi resta indietro. Anche solo raccontarlo, è una prima luce in quello scantinato.
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