Ci sono momenti in cui l'uomo si rivela nella propria misera nudità, in balia delle proprie paure, dei propri fantasmi, di quel vuoto interiore che devasta e risucchia e che ti implode dentro come un'atomica. Si chiama depressione, ma potrebbe anche chiamarsi odio, noia, disgusto, nausea, ubriacatura. Ed è difficile stare a galla nel mare di tutti giorni, quando stai così, devi per forzi aggrapparti a qualcosa, a una zattera della Medusa che magari ti porterà alla deriva ma che di certo non ti farà annegare fra l'indifferenza di tutti. Potrebbero essere gli amici, questa zattera, o forse un amore, o semplicemente qualche farmaco, qualche pillola della felicità. O magari solo un disco. Che a volte basta davvero a salvare. Coi suoi suoni aspri, coi suoi canti stonati, con la sua atmosfera annegata dai fumi dell'alcol e della tristezza. Come accade in quest'ultima, attesissima uscita di Will Oldham e del suo moniker preferito, Bonnie 'Prince' Billy.
"Summer in the southeast" è il primo disco live del songwriter di Louisville. Una ripresa di gran parte della produzione precedente del "Principe" Billy, una sorta di "Best Of" dal vivo. Nient'altro. Una ripresa dei Palace, di "I See A Darkness", e persino una citazione dal recentissimo "Superwolf". Ma che senso ha, questa nuova rilettura, a pochi mesi dalla recente uscita di "Greatest Palace Music"? Ha senso, e parecchio. Perché questo disco è diverso. È agli antipodi del country autoindulgente e mordacemente ironico di "Greatest". Al contrario, questo "Summer In The Southeast" è tutta la poesia dei testi di Oldham nella sua crudele nudità. Sublime, ammiccante e volgare come una puttana d'alto bordo. Sono le continue imperfezioni vocali di Will che fanno di ogni brano un fantasma asfittico e cachettico rispetto agli originali in studio. Sono le riletture aspre e ruvide di "Master And Everyone" o i guaiti alla luna di "Wolf Among Wolves" che arrancano come ingranaggi poco oliati, che grattano cattive nel cuore come una marcia che non vuole entrare. È il duetto sguaiato e rockeggiante di "May It Always Be" con la voce volgarmente folk di Pink Nasty. O i potenti riff di Matt Sweeney che rendono angosciosa e irta una "Madeleine Mary" partita tranquilla in territori quasi blues. O ancora la rilettura scheletrita e "terminale" di "I See A Darkness", dove non c'è una sola nota, ma che sia una, che sia intonata correttamente. Una versione che trasmette ed incute un senso di angoscia e di disperazione nerissima, con un disincanto e una amarezza che stordisce nel delirio di un nulla dalle dimensioni cosmiche.
Rare le luci di speranza che filtrano come fasci di luce, col loro messaggio d'amore, fra le nubi interiori del bardo del Kentucky. Come in "Blokbuster", nel suo chorus tremebondo "I was waiting to know, I was waiting to see, I was waiting to go, I was waiting for thee". Perché "l'inferno sono gli altri", come diceva Sartre. Ma gli altri possono essere anche il paradiso, e salvezza, quando superiamo le nostre paure di dentro. E torniamo ad essere, finalmente, noi.
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