La mia passione per i Borknagar, ultimamente, non ha confini.
Passo le giornate ad ascoltare tutta la loro opera sino all'ultimo "Origin" ripercorrendo a ritroso tutta la loro carriera e i progetti affini ed assimilabili alla band da parte di ogni componente. Fanatico? Probabilmente.
Nei miei excursus nel tempo che fu e che, ringraziando una qualsiasi divinità amorfa, cambiano sempre in meglio per i Borknagar, mi sono fermato, oggi a "The Archaic Course".
Mi sono fermato e lo ho ascoltato chiedendomi se si potesse amare in maniera viscerale un album, solamente avendo avuto a disposizione per svariato tempo, solo due o tre canzoni del cd, quindi non potendolo giudicare nella sua interezza, ma immaginandomi sempre quanto potrebbe essere stato grande nella sua criptica e granitica mole.
Adesso che posseggo ogni cosa, e ho tutti gli elementi in mano per poterne dare opinione in maniera serena rispetto a quanto è stato fatto, devo dire che le premesse, forse le illusioni, chiamiamole pure così, che mi ero costruite, si sono dimostrate migliori di ogni mia più rosea aspettativa.
I brani che possedevo già prima erano "Oceans Rise", "Universal" e "The Black Token" e, già solo per questi tre, lo dico subito a scanso di qualsiasi ripensamento postumo, valgono da soli l'intero acquisto, non dico solo di questo album, ma dell'intera discografia della band.
Certo, occorre avere un orecchio abbastanza allenato per poter comprendere ed apprezzare appieno la straordinaria e feconda vena ispirata, raffinata ed eclettica, che muove la mano di Øystein G. Brun, da sempre, mente di questo meraviglioso e mastodontico progetto musicale.
I brani si dimostrano essere sempre aggressivi, strutturati in maniera poderosa seppur non eccessivamente intricata (anche se, ad onor del vero, sia prima che dopo l'uscita di questo lavoro i Borknagar hanno dimostrato di saper comporre architetture sonore intricatissime e mostruosamente congegnate), con la tendenza marcata a non rinnegare le proprie radici "Black", pur concedendosi e strafacendo in campi "contaminati" da synth, organi, e melodia profusa.
E questa è la prima carta vincente che la band sfodera senza dimostrare di avere alcun problema.
La seconda è, almeno in questo frangente, la prestazione vocale del cantante ICS Vortex, poi passato ai Dimmu Borgir come bassista e seconda voce e, nei ritagli di tempo, impiegato negli Arcturus. Vortex, ha qui il compito di colmare la lacuna evidente lasciata dal precedente suo collega Garm (oggi negli Ulver), e, con perizia e passione non fa rimpiangere per nulla il suo predecessore, anzi. I livelli di cantato si attestano su livelli medio-alti in qualsiasi squarcio li si voglia guardare: sia in "Scream" che in pulito, con un'invidiabile tendenza ai toni alti e sofferenti, che contribuiscono, se vogliamo, all'alto tasso di drammaticità e di oniriche visioni di cui questo album è permeato.
In "Oceans Rise" si riesce a percepire benissimo l'atmosfera "nordica", fredda e guerreggiante di ancestrali periodi di Medioevo persi nella memoria e coperti dalla polvere della dimenticanza. Interludio prettamente sinfonico e Black che precede un'ariosa e svirgolata cavalcata su terreni epici e trasfigurati da immagini che solo i Borknagar sanno creare, in un crescendo notevole e secondo uno schema che non può non lasciare con la bocca aperta chi ascolta.
Se però "Oceans Rise" è stato un boccone appetitoso e ha segnato il viatico per il percorso che chiaramente la band ha inteso prendere, è con "Universal" che Vortex trasborda verso lidi irraggiungibili fatti di sofferenza e di sfocati mostri di disperazione e dolore. Rispetto alla struttura complessa ed epica che richiede di destreggiarsi in passaggi mai uguali, il ritornello è una gemma fatta del più prezioso metallo esistente, con tutti quegli acuti da far rabbrividire, a cantare di cose viste ma pensate oggettivamente e tragicamente:
"Rivers longer than blood can flow
Horizons wider than complete wisdom
A distance of furious dreams
Isolated fields in convulsive motion"
Un sogno. Una catarsi più lunga dei più impetuosi fiumi del colore del sangue.
E non finisce qui.
Tutti i brani calcano la mano pesantemente sull'aspetto epico e universale delle cose, riuscendo ad ogni piccolo passo a creare scenari su scenari, senza perderne in potenza o perizia, ma anzi aggiungendone altra ed altra ancora, e gli esempi, se ne volete qualcuno, si sprecano ad ogni secondo che passa: "The Black Token", "Ad Noctum" con quel suo organo sfuggente, "Winter Millenium" con la sua ferocia cadenzata e le sue chitarre "liquide" seppur cattivissime.
Tutti brani che rimangono nel cuore, lo graffiano e lo martirizzano diluendone il dolore in soporifere sensazioni di smarrimento e costernazione. Ma è un morire con orgoglio, seppur con rassegnazione questo, e solo qualcuno, qualcuno dei pochissimi, dotato come i Borknagar, è riuscito ad esprimerne il senso con tanta compiutezza.
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