Facciamo un salto indietro nel tempo. A dieci anni fà, per la precisione.

A quell'epoca i Borknagar non erano né più e né meno che una band come un'altra, ma che prepotentemente stava facendosi strada nella scena estrema scandinava ed europea e questo grazie, anche e soprattutto, al di là di ogni ammirazione che si possa o non possa avere per i vari suoi appartenenti, alla straordinaria originalità che questa profondeva (e profonde tuttora) negli album che ne hanno presentato i connotati in una misura cangiante, piuttosto "fuori le righe", senza dover per forza rinunciare alla propria matrice estrema che li collocava, all'inizio della loro carriera, come un connubio abbastanza riuscito di "Viking" e "Black Metal" ferale e della migliore specie.

Il tempo ha poi mutato la direzione stilistica dei Borknagar, ammorbidendone i tempi e largheggiando in epicità, questa mai assente in tutta la loro discografia, anzi costituendo la spina dorsale, la colonna portante di tutta quanta la produzione musicale dei cinque.

"The Olden Domain" fu il primo passo reale, vero e palese, verso lidi che prima dei Borknagar pochi avevano osato pensare: staccarsi dal Black Metal per rimaneggiarne il "mood" senza snaturarlo e renderlo partecipe e asservito all'intelligenza di una componente lirica ed epica che non ha risparmiato di affascinare altre band, e altri personaggi, poi resi celebri dallo stesso filone (Ensiferum su tutti).

Il disco si muove su due binari essenziali.

Il primo, imprescindibile, è l'apporto dell'estroso chitarrista, nonché mente pensante del gruppo Øystein G. Brun, che grazie alla sua cultura, alla sua magnifica tecnica e al suo sentimento, riesce a cesellare come se fosse un orafo, accordi su accordi, imbastiti su tessuti armonici mutevoli e mai scontati, aggiungendoci, se anche non bastasse di suo, un alone sempre triste e angoscioso, nonché drammatico e ancestrale che non può che rimandare alla mente presagi di un inverno infinito, di un qualche elemento che abita nel cosmo ma che è troppo grande per poter essere descritto potendo, e non è poco, solo essere abbozzato sommariamente; immaginato e portato alla mente dalle note di canzoni come "The Winterway", "A Tale of Pagan Tongue" o come "The Dawn of the End".

Il secondo è invece l'apporto del cantante Garm, che gli appassionati di Avantgarde ritroveranno negli Arcturus di "La Masquerade Infernale", tanto per fare un esempio, o nella sua creatura Ulver.
Sulla straordinaria prestazione vocale che questi profonde in ogni solco del disco non c'è obiezione che tenga: Garm è semplicemente dotato di strabilianti timbri vocali che ne hanno fatto una specie di semi-dio in certi ambiti, e non a torto direi.
Si capisce perché poi, in sua sostituzione, i Borknagar non abbiano potuto trovare soluzioni di ripiego che ne costituissero degna continuazione, ma si siano dovuti rivolgere ad altri cantanti della stessa mole come I. C. S. Vortex (oggi nei Dimmu Borgir come bassista, ma anche negli Arcturus, in sostituzione dello stesso Garm) o Vintersorg (altro pilastro estremo dall'ugola d'oro, in azione negli Otyg, nei Vintersorg appunto, e nei Cronian); tutta gente che ha stupefatto, ha saputo infondere sempre nuove sfaccettature alla straordinaria opera della band, ma che, onestamente, e lo dico a malincuore visto che sono artisti che io amo più di ogni cosa, non sono la stessa cosa di Garm.

Il phatos di questi è inimitabile, i suoi "duetti" tra Scream feroci ed encomiabili vocalizzi in "chiaro" puliti, evocativi e magistrali sono all'ordine del giorno in questo album, e questo viene dimostrato eccellentemente in brani come "Grimland Domain", "The Eye of Oden", "To Mount and Rove", che sono esempi più che lampanti di quanto i Borknagar si siano spinti avanti e senza troppa presunzione, in territori sconosciuti, nelle selve nordiche sferzate dal freddo e bagnate da un mare glaciale che ne fa da corona e da limite; un limite che occorre sempre scrutare, e che, agli occhi di chi ha saputo guardare "oltre" questo lconfine, riecheggiano nelle note di questo disco: nella commovente "Om Hundredeaar er Alting Glemt" dove un piano che sembra essere sospeso in aria porta la mente a viaggiare su qualcosa di decadente, di antico, di morboso, osservandone i tratti con l'aiuto della memoria di un popolo come quello scandinavo che ha attraversato imperi e culture diversissime e sconosciute, a volte soggiogandole, a volte barattandoci qualcosa, a volte subendone l'impulso e confondendosi con esse.

Ancora, ci sarebbero pagine e pagine di pensieri da scrivere riguardo a "The Olden Domain", ma è superfluo che io continui, potendovi solo pregare, se mai ne avrete occasione, di procurarvi il disco, di farlo vostro, di ascoltarlo più e più volte, per assorbirne la straordinaria energia, il fascino strano e la forza e i suffissi, senza dover per forza scadere, come molte volte si è fatto, nel facile satanismo e nelle stupidaggini commerciali e pacchiane di molte altre band di genere Black Metal (con tutto il rispetto pure per queste, ci mancherebbe!).

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