Potessi scegliere, mi piacerebbe rinascere nel 1963 ed avere i genitori freakettoni, per poter trascorrere in assolute beltà ed innocenza la mia infanzia illuminata dallo sfavillare dell'Utopia, coccolato dalle note di Beatles e Jefferson Airplain, per poi assistere al triste crollo delle illusioni, vivere con cognizione di causa il grigiore della fine degli anni settanta e del decennio successivo, subire la rivoluzione punk prima e poi quelle post-punk e wave dopo, viverle come un'autentica novità e non come un ripescaggio enciclopedico compiuto a posteriori. Mi sarebbe piaciuto, inoltre, crescere e maturare in una grande città, vivere sulla pelle l'avvento dell'elettronica, vivere il fermento di certi movimenti culturali, frequentare i più fetidi centri sociali, bazzicare per i più luridi locali di non-tendenza. Truccarmi, vestirmi di nero e pigliarlo nel culo quando aveva un senso, sotto gli occhi stupefatti dei miei comprensivi e progressivi genitori, divenuti nel frattempo due agiati rappresentanti della borghesia bene, uno medico e l'altra professoressa.
Il destino ha voluto invece che nascessi un bel po' di anni dopo, e per giunta in una città piuttosto modesta, dove il massimo di culturale che ci si è potuti permettere è un cinema d'essay.
Ma v'immaginate subirsi i Suicide nell'adolescenza?, acquistare ed ascoltare "Pornography" alla sua uscita?, vedersi dal vivo i CCCP?, andare a scuola ascoltando "Funeral Party" ed innamorarsi con "Love will Tear Us Apart"? La storia della musica, i capolavori di fine anni settanta e del decennio successivo l'ho riscoperti in seguito, da solo, li ho apprezzati, li ho amati ma certamente non li ho sentiti miei, perché non li ho vissuti, non li ho ammirati con il candido entusiasmo e con gli occhi ingenui dell'adolescente che vive in prima persona certi eventi. E così convivo oggi con la frustrazione di non aver assistito in diretta ai veri fasti della musica che più amo. Riscoprendomi nel tentativo di colmare questo vuoto celebrando artistelli contemporanei tanto per sentirmi parte di qualcosa d'importante. Ma non è così, quel che vivo e respiro è solo sfarzo. I Liars sono sfarzo.
Ogni tanto, però, mi capitano fra le mani album talmente rozzi, intransigenti e confezionati male che mi riportano alla stadio primordiale della creazione artistica e dell'evoluzione della musica. Album che mi fanno regredire all'infanzia, all'ingenuità, alla puerilità nell'usufruizione della stessa. Album che in qualche modo mi trasmettono il fetore, il viscidume dei centri sociali di un tempo, non quelli in cui si balla esclusivamente reggae e ska, ma quei luoghi divenuti ricettacolo di sotto-culture, di movimenti underground, di un'avanguardia proletaria ed emarginata cresciuta all'ombra di un amplificatore scassato ed animata dalla sola urgenza di esprimere il caos interiore, il disappunto, la rabbia incontenibile.
Uno di questi album è "Baptism by Fire" della premiata ditta Boyd Rice and Friends, uscito nel 2004. Lasciate perdere Boyd Rice e le sue idee destronze, lasciate perdere il fatto che la sua musica è un continuo inneggiare alla violenza, all'odio ed alla guerra, lasciate perdere il fatto che il suo pensiero filosofico affonda le radici nel satanismo mansoniano, si tinge di rigido elitarismo misantropico, si nutre di una perversa forma di darwinismo sociale che legge il mondo sociale come regolato esclusivamente dalle leggi spietate di una ferrea ed inesorabile selezione naturale. La vita come lotta, la legittimazione della forza bruta, il primato della prevaricazione, il predominio del più forte, "la Guerra madre di tutti noi".
Lasciate perdere tutto questo e immergetevi come bambini in fasce nel caos primordiale dell'arte di Boyd Rice, uno che il casino lo fa dalla metà degli anni settanta (lo stesso Scaruffi, pur disprezzandolo come artista, gli riconosce lo status di pioniere di una avanguardia manipolatrice "magna-nastri" che vede oggi in prima fila gente come Merzbow, che, a ben vedere, nemmeno lui è poi così tanto di sinistra).
Certo, titoli come "Total War" o "A Noi!" sono difficilmente equivocabili e costituiscono un insulto bello e buono per chiunque abbia almeno un granello di sale in zucca e conosca un minimo il corso della storia. Ma lasciate stare tutto questo, vi dico, ed abbandonatevi per un momento alla schizofrenia dell'elettronica più elementare, al rombare delle percussioni, alla violenza declamatoria di un Rice invasato, generoso di slogan ed invettive che più politically uncorrect non si può. Parole che fischiano ed espolodono come granate nel bel mezzo di una battaglia.
Rice è più di trent'anni che è a giro, è il figlio scemo di John Cage, in trent'anni non si è evoluto un cazzo, non ha imparato un cazzo, è lì, dietro ai macchinari da trent'anni, o con un microfono in mano, che fa casino e dice stronzate, oggi come trent'anni fa. Ed è questa anacronistica condizione, questa sua collocazione al di fuori del tempo, al di fuori dell'evoluzione della musica, questa sua ingenutà tipica di un principiante lobotomizzato che mi fa sentire (mentro lo ascolto nel chiuso delle mie stanze, lontano da orecchi indiscreti) proprio nel bel mezzo della calca di un fumoso locale perduto nei meandri più reconditi di un qualsiasi sobborgo metropolitano nel 1978: l'arte di Boyd Rice è l'eterno ripetersi del big bang mentale che porta alla creazione artistica, ma che poi non si evolve in un universo compiuto.
Sì, perché Boyd Rice, che si definisce una via di mezzo fra Bambi e Hitler, ha tutto il candore del primo e tutta l'idiozia del secondo. Ascoltare "Baptism by Fire" è davvero come stare a quindici anni, gota contro gota, a contatto con un energumeno sudato e fetente fornito di cresta verde e chiodo marcio nel 1978, ed esaltarsi perchè il tizio sul palco dice "cose grosse" e fa un casino della madonna. Perché essere estremi significa essere anche un po' scemi e pure un po' stronzi, perchè è da scemi e molto da stronzi lasciare accese le chitarre elettriche rivolte verso gli amplificatori e spaccare i timpani del pubblico per quarti d'ora (se lo fai per primo, beninteso, sei un genio, per questo, noialtri comuni mortali siamo semplicemente più scemi e meno stronzi di tanti acclamati genialoidi della musica!).
"Baptism by Fire" (corredato anche da un DVD che definire amatoriale è poco!) raccoglie estratti del tour dei NoN, progetto principe di Boyd Rice, che per l'occasione si fa accompagnare da un paio di amici di tutto rispetto: sir Douglas P. e John Murphy, di professione percussionista. Ma è chiaro che la scelta di far campeggiare nel retro-copertina l'altisonante nome del leader dei Death in June è solo un trucco per attirare qualche gonzo (tipo me) e raggranellare qualche soldarello in più. Di fatto la chitarra di Pearce, fra arpeggi svogliati e banali fischi, è davvero poca cosa nell'economia dei suoni che ci apprestiamo ad ascoltare.
Quello che ci troviamo fra le mani è in realtà un ultra-essenziale best of dei NoN, un vero battesimo nel fuoco per chi volesse avvicinarsi a questa mostruosa entità "musicale". Presenti gli episodi più significativi della storia recente di Rice, senza disdegnare qualche capatina nell'esperienza Boyd Rice and Friends, qui rappresentata da estratti da "Music, Martinis and Misantrophy" e "Wolf Pact". Suoni scarni e trenta stronzi ad applaudire, per una mezz'oretta scarsa che più underground non si può!
La già citata "Total War", "God and Beast" (allucinata invocazione sonica sospesa in una tragica tensione primordiale in cui bestie ed angeli copulano avidamente all'Alba dell'Uomo), la terremotante "Fire Shall Come" (fusa crudelmente ad una dissonante "Everlasting Fire") sono saggi di autentico terrorismo sonoro, schegge di elettronica impazzita, veri manifesti dell'intransigenza sonora di Rice, resi ancora più minacciosi dall'arrembaggio percussionistico da parata militare di Murphy. E c'è da dire che è proprio il buon Murphy, abile ammaestratore di droni, stridori ed esplosioni sonore assortite, a dare un po' d'ordine al tutto e rendere maggiormente digeribili pezzi che, se fossero stati lasciati nella nuda veste elettronica degli album ufficiali (che non auguro a nessuno!), avrebbero perso forza sia a livello di impatto sonoro, che di compattezza ed organicità.
E' interessante, inoltre, riscoprire i brani in una veste mutata rispetto alle versioni da studio, come se, nella sua approssimazione, a Boyd Rice bastasse confondere le carte, mescolare il materiale a sua disposizione e fare semplicemente del baccano (tanto il risultato è lo stesso!). E così troviamo tracce di "Children of the Black Sun" sparse qua e là, mentre in "The Reign Song" Pearce partorisce con timidezza quello che diverrà l'arpeggio di "An Ancient Tale is Told", che presenzierà in "Alarm Agents", ad oggi l'ultimo album dei Death in June.
Quanto alle parole, ahimè, il velo pietoso è d'obbligo ("Do you want total war? Yes we want total war!" è il botta e risposta della fragorosa "Total War", mentre nella mussoliniana "A Noi!" udiremo, scandito in un italiano un po' incerto, il motto "Molti nemici, molto onore!" ripetuto fino all'esasperazione. "La lezione della Storia ci rivela che la Guerra è la madre di tutti noi" recita "History Lesson", atroce rilettura della storia intesa come un susseguirsi impietoso di massacri, eccidi, genocidi, assassinii, stragi, guerre e chi più ne ha più ne metta).
Ma a questo punto, per piacere, si cerchi di comprendere il perchè di questa recensione, si cerchi di accogliere il mio intento meramente documentativo, fondato sulla speranza che un giorno, donne e uomini di destra e di sinistra, di sotto e di sopra, possano darsi per un momento una tregua e stringersi la mano almeno innanzi all'Arte. Anche innanzi ad un'arte con l'A minuscola, eticamente immorale, povera ed elementare come quella di Rice, non altro che un imbecille dell'elettronica, ma che ha il pregio di farci assaporare l'intransigenza, l'integrità (e anche l'idiozia) dell'underground più genuino.
Un fascino arcano, antico, primordiale emanano queste composizioni di altri tempi, come se dal clamore di questo big bang nascesse la musica nel suo stadio monomolecolare, nella sua forma più distruttiva e selvaggia. Come la scimmia che sfiora il Monolite ed acquisisce l'intelletto ed inizia poi a prendere a bastonate gli ippopotami. Come l'intuizione artistica che nasce dal cozzare fortuito dei due soli neuroni di un musicista cerebroleso. Come noialtri che, tornati bambini e colmi d'entusiasmo, assistiamo con gli occhi ingenui dell'adolescenza ad un evento spettacolare, meraviglioso, traumatizzante. Spettacolare, meraviglioso e traumatizzante solo nella nostra testa.
P.S. Nella conclusiva "People", ballata acustica che apre il già citato "Music, Martinis and Misantropy", rinveniamo nel finale la celebre frase "Benito Mussolini, come back, come back, we miss youuuu". Ora, c'è chi giustifica questo appellarsi alla figura di Mussolini interpretandolo come la volontà di richiamare allegoricamente un'ideale di forza, di rigore, di determinazione, di guida spirituale ed esempio in un mondo di smidollati, livellati, svuotati sub-umani.
Non è mia intenzione entrare in merito alla polemica, solo una cosa vorrei aggiungere: se proprio si voleva parlare di forza, rigore, determinazione, ho l'impressione che Boyd Rice abbia proprio scelto la persona sbagliata...
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