Ho digitato alla voce "artista" Boyd Rice and "Friends" solo perché il databaser non mi riconosce la corretta dicitura, che sarebbe invece Boyd Rice and "Fiends": non un errore di stampa, bensì un gioco di parole ("amici", "demoni") con cui Rice decide di ribattezzare il proprio progetto personale, giunto al secondo appuntamento in studio (se non si considera il singolo apripista "The Registered Three", registrato nel medesimo anno).

L'illustre precedente era stato "Music, Martinis and Misanthropy", uscito nel 1990 e che vedeva il contributo di noti personaggi della scena apocalittica come Douglas P. (Death in June), Tony Wakeford (Sol Invictus), Rose McDowall (Current 93), Michael Moynihan e Bob Ferbrache (entrambi dai Blood Axis): un lavoro intenso, surreale, destinato a divenire un caposaldo del folk apocalittico.

 Più di dieci anni dopo, nel 2002 per l'esattezza, la storia si ripete: Boyd Rice, Douglas P. ed Albin Julius stringono il Patto del Lupo. A vedere gli amici che Boyd Rice s'è tirato dietro, e a considerare Boyd Rice stesso, si potrebbe pensare ad un'opera ad alto tasso di fascio.

E invece "Wolf Pact" è un album simpatico e scanzonato (uno scazzo fra amici, si potrebbe dire) che fra eccessi ed ironia, ci consegna quanto ci possiamo aspettare dai personaggi coinvolti, ma senza quella seriosità di fondo che guasta sempre.

Non so perché, ma con Boyd Rice e Douglas P. mi sento a casa mia: ascoltare un loro album, a prescindere da quello che c'è dentro e da quello che ci sta dietro, mi è caro almeno quanto una serata passata con i cari e vecchi amici di una volta, che magari sono delle teste di cazzo, ma a cui non si può negare un profondo e sincero affetto.

E quanto mi è caro stringere fra le mani questo "Wolf Pact" dalla copertina a dir poco idiota, che ritrae i tre bolliti in pose truci e tenebrose: Boyd Rice, nero vestito in espadrilles di tela e senza calzini, seduto su un funghetto di pietra; Pearce in mimetica che abbraccia un fungo gigante; Julius, con tanto di camicia nera e capigliatura hitleriana, che ci guarda con fare sbarazzino. Tutt'intorno: nani da giardino e quello che potrebbe sembrare un parco giochi per bambini... cinto però da filo spinato! (All'interno del booklet troveremo nuovamente i tre che ci guardano torvi, questa volta fra le fresche frasche ed adombrati da due nanetti che sembrano proprio farci il saluto romano!)

Che si tratti di auto-ironia, d'insana idiozia o più semplicemente di trash involontario poco cambia: Boyd Rice e Douglas P. rimangono dei personaggi in assoluto controversi, rispettabili e degni di disprezzo al contempo; personaggi che hanno scelto di percorrere una via ostica, irta di ostacoli, costellata da idee e posizioni a dir poco scomode e del tutto opinabili. Autentiche icone di un modo di concepire e far musica, che dopo anni di (dis)onorata carriera raggiungono finalmente lo status di chi si può permettere tutto.

A loro il merito, nonostante flotte di discepoli senz'anima, cloni invasati e fan isterici pronti a morire per loro, di essere i primi a non prendersi eccessivamente sul serio, di non scadere in pose fasulle o scontate: ridicoli sì, cialtroni anche, ma sempre e comunque loro stessi. Uomini prima ancora che artisti.

 "Wolf Pact" prosegue sulla scia del predecessore, ma con delle sostanziali differenze: laddove "Music, Martinis and Misanthropy" dava rilievo principalmente all'atmosfera ed alla componente lirica (tanto che la musica ci appariva come un suadente accompagnamento alle riflessioni di Rice), in questo lavoro l'attenzione si sposta decisamente sui suoni e sull'impatto fisico.

La componente folk viene drasticamente ridimensionata, mentre ben più spazio troveranno le asprezze che ci possiamo aspettare da terroristi sonori come Rice e Julius: le suggestioni marziali, proprio per la presenza di Julius (mente dei guerrafondai Der Blutharsch), guadagnano così terreno, anche se nel complesso l'industrial/noise dei Nostri si orienta verso i lidi oscuri di una psichedelia dai sapori squisitamente esoterici.

 Un album vario, quindi, meno compatto del suo predecessore, che finisce però per suonare dispersivo e poco curato nei suoni come negli arrangiamenti (decisamente una spanna sotto al mitico "Music, Martinis and Misanthropy").

Nel 2001, del resto, era stato pubblicato il non proprio ispiratissimo "All Pigs Must Die", e "Wolf Pact" finisce per essere il frutto collaterale del periodo di stasi creativa che la Morte in Giugno viveva all'epoca. Vero è che la fiacchezza compositiva di Pearce non finirà per incidere oltremodo sul risultato finale, dato che gli unici momenti in cui la sua presenza è tangibile sono l'opener "Watery Leviathan" (ninna nanna dai toni sognanti, con tanto di scampanellio e cori angelici) e la title-track (altro carezzevole brano folk riconducibile al periodo "But, What Ends When the Symbols Shatter?").

Per il resto il nostro si limiterà a strimpellare di tanto in tanto la sua chitarrina, ad intonare inutili controcanti e a prodigarsi nei soliti effettucci di sempre. Sono piuttosto le macchine di Rice e Julius a parlare, a creare scenari apocalittici e distese di ruderi che fungono da tappeto ideale per il suggestivo recitato di Rice.

 Nei suoi versi profetici Rice accenna a Giulio Cesare, Alessandro Magno, Dio, il Diavolo, lo stesso Douglas P.(!!!), ma senza mai cagare fuori dal vaso: tutto il Boyd Rice-pensiero, in realtà, ci risulta edulcorato attraverso formule criptiche ed immagini dalla forte connotazione simbolica che traggono ispirazione dalla storia, dai miti antichi e dalle religioni.

Nella doppietta "The Forgotten Father" e "Tomb of the Forgotten Father", per esempio, Rice racconta di uno strano sogno in cui, ritrovandosi in una terra sconosciuta, ai piedi di un tempio antichissimo la cui architettura non sembra riconducibile ad alcuna civiltà nota, incontrerà lo stesso Douglas P. (intento a sorseggiare un bicchiere di vino bianco), con il quale avrà un dialogo illuminante (esilarante la scena in cui Rice, spaesato, riconosce ad un tratto l'amico e gli chiede cosa diavolo ci faccia in un luogo simile!).

Ma "Wolf Pact", salvo qualche eccezione, non si rivelerà un album di discorsi, bensì un viaggio onirico in cui a prevalere sono slogan, formule o veri e propri tour de force strumentali, come l'avvolgente crescendo noise di "The Orchid and the Death's Head" (quasi otto minuti di droni vorticosi dagli effetti devastanti sia per le orecchie che per la psiche).

 Un po' tutto l'album, in realtà, sembra volto a stordire l'ascoltatore. Rumori, voci registrate, voci che si sovrappongono, voci riprodotte all'incontrario, l'organo schizzato di "Their Bad Blood" che spazza via i lenti movimenti marziali di "Worlds Collide": "Wolf Pact" è un continuo alternarsi fra i complotti bellici di Julius (evidente la sua mano dietro alla pomposa "Rex Mundi" o alle sparatorie che costellano "Murder Bag") e gli assalti sonori di Rice ("The Reign Song" e "Joe Liked to Go (to the Cemetary)" sembrano uscire direttamente da un album dei NoN).

E poi c'è "Fire Shall Come", forse la migliore cosa mai uscita dal cervello uni-neuronale di Boyd Rice: niente di particolare, beninteso, solo percussioni, droni e lo sbraitare ovattato di Rice. Un pezzo che dal vivo spacca rispettivamente culo ed orecchie (lo dico per esperienza!), ma che anche nel chiuso delle quattro mura di casa, ad un volume fra l'alto e l'altissimo, riesce a darci filo da torcere, a noi come ai nostri vicini di casa!

  "Wolf Pact", si sarà capito, non è un capolavoro, e, a dirla tutta, nemmeno un buon lavoro: un album ascoltabile, perfino apprezzabile, a tratti, od anche esaltante, in altri, ma nel complesso consigliabile solo a chi conosce e gradisce scena e personaggi.

Si faccia avanti quindi chi sa accontentarsi, o anche chi, più semplicemente, si ritrova ad avere l'insana voglia di tre quarti d'ora di musica stonante ed abbastanza di merda.

Tipo me.

 Fire! Fire! Everlasting Fire! 

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